Ottavio Profeta - Passione di Cristo

Ottavio Profeta 

da "Sicilia favola vera"  Vol.II pagg. 89-93

La settimana santa aidonese nelle parole di Ottavio Profeta si ammanta di tenerezza e nostalgia ed entra a pieno titolo nella mitologia delle tradizioni immutabili che il popolo siciliano si tramanda tenacemente da secoli custodendole gelosamente e combattendo per mantenerle al di là e contro qualunque giustificazione teologica e intromissione modernistica.   

"Questa era ed è la settimana santa degli erbitensi, che sono prigionieri della distanza e dell'azzurro, più di ogni siciliano. Chi vuol conoscerli dev'essere capace di scoprire, sotto la scorza dura, quei teneri germogli che crescono al buio, nel cuore di tutti i siciliani, e somigliano al frumento cresciuto nei Sepolcri, in un calice d'acqua cristallina.

Giornate grandi: 
PASSIONE DI CRISTO

Ecco: parliamone insieme, col cuore più vicino alla terra dell'isola nostra.

Gli anni che passarono in giro lento e in rumore di ruote pesanti, oggi si fermano ai lati del Sepolcro. Mi sento ancora della stessa argilla delle lampade antiche e quasi fatte trasparenti, che trovavo scavando a Villa Orlando, sotto la roccia di Herbita, forse, la greca millenaria.

Verde era l'erba, alle prode del fiume: e fra le ascelle delle piccole foglie saponarie dormivano cocciniglie d'oro bruno; le prendevamo nel pugno, tornavamo con questo tesoro verso le nuvole aggrappate al paese, che le argute radici d'acacia sostenevano in bilico, tra l'azzurro lontano del mare e lo stupore del cielo, trasparente.

Avevamo bisogno, allora, (forse avvertiti che saremmo rimasti fanciulli) avevamo bisogno di parlare, in colloqui segreti, col Gesù nostro morto, il piccolo Cristo con le mani inchiodate, che c'eravamo fatto noi, scavando in un pezzo di legno come fanno i pastori, per consacrarlo ogni anno alla nostra piccola settimana santa, parente dell'altra, quella « vera dei grandi ».

I grandi cominciavano a pensare al loro Cristo, dolce e sereno come quello di Frate Umile da Petralia, nella chiesa di Sant' Anna: anch'esso scolpito in legno “piangendo e dolorando”. Cominciavano a pensarci la domenica delle palme, quando era tempo d'umiliazione e di trionfo. Andavano a tagliarsi i rami delle palme nelle ville in pianura, e tornavano carichi di verde. Intanto il sole batteva sui vetri delle case e alle badie, sui tegoli intasati per i nidi, sulle bifore bianche delle chiese normanne, sulle cùspidi arabiche brillanti di maioliche squamate. Si svegliavano le foglie degli ulivi, sonore di polline volante, pallide di proposte e di richiami. E i colombi e gli storni danzavano sul tetto più grande del mondo che per noi era là, sulla chiesa Domenicana, con le pietre tagliate a diamante e l'unica immensa navata aperta come una voragine al silenzio da troppo tempo sconsacrato.

Cominciavano così, i grandi (i papà, le mamme, i nonni ancora vivi, gli zii che si volevano di nuovo bene, gli amici che si ritrovavano fedeli) cominciavano a ricordarsi di Cristo e del suo dramma, togliendo al cuore delle palme e degli ulivi i rami teneri e bianchi, per farne piccole croci, panierini gingilli benedetti, da scambiarsi in un impeto d'amore rinnovato.

Poi se n'andavano con questi doni e giunti a casa li appendevano al capezzale.

Intanto, qui e là, nei paesetti isolani, i sacerdoti, gli apostoli giganti, i santoni infiorati di violaciocche nuove, osannavano dietro le porte delle cattedrali finchè gli officianti le spalancassero di dentro all'ondeggiante turba dei fedeli. Odor di incenso e voci di campane li sollevava a cieli più tangibili, dove scoppiavano piccole nuvole improvvise e si pagavano i Giuda salariati.

A Siracusa, Gesù passava tra il luccichio delle palme, a dorso d'asinello. In Aidone, si faceva rappresentare dal più imponente parroco del mondo: alto arcangelo dalle mani bianchissime, ch'egli sempre si guardava, compiaciuto forse di tanto candore, al pensiero dell'ostia.

Per lui, Pappardedda, l'uomo del Presepio, ogni anno faceva i Sepolcri (i bei Sepolcri adorni di bianche tovaglie ricamate per l'Altare); uomo occhialuto e silenzioso, tracciava segni e disegni variopinti e figurette bibliche, e pesci e agnelli, stelline e croci, sulla rena antistante all'icona maggiore, vigilata da mute fanciulle in velo nero, le giovani « piangenti ».

Poi, venuto il venerdì, si legavano le campane; uomini e chiese prendevano il lutto: Vi salutu, o sacra testa, ca di spini è curunata...

Dormivano tutti i « Misteri », con le statue raffiguranti Passione e morte di Gesù (le «Casazze » famose di Caltanissetta, a cui corre tutto il mondo; quelle più piccole di Avola, di Polizzi, di Erice e di Milazzo, di Nicosia e di Palermo): riposavano anche le celeberrime Casazas trapanesi, dalla crudezza verista e potente che ricorda i Misteri di Murcia (Spagna) dell'insuperabile Salzillo: e tutte le voci dei « Mortòri» (dal Riscatto d'Adamo, ai più modesti e anònimi spettacoli inscenati per il popolo commosso alla grande finzione della morte di Cristo) tacevano in tutta la Sicilia che s'era inginocchiata davanti all'Urna sacra-

Mio padre s' insaccava nel candido "sacco" dei Bianchi; e mi piaceva tanto vederlo (con le scarpine bianche, i guanti bianchi, i capelli pure bianchi) andarsene con gli altri della confraternita, all'Oratorio. Noi, piccoli piccoli, lo seguivamo incantati, uno per mano. All'Oratorio si moveva una folla d'ombre anch'esse bianche sulle scarpine bianche, felpate. C'era sempre un gran silenzio, nell'Oratorio; e un odore buono, di cera accesa e di caffè “alla turca” : il caffè della 'gna Mena, la dolciera dagli occhi di miele, che portava le ciambelle di maiorca, leggere leggere, come un sogno tra le braccia della madre.

I “grandi”, in quel mistero senza parole, diventavano enormi quando si calavano sugli occhi il cappuccio e preparavano l'Urna di cristallo per Gesù, che al Calvario era già stato sceso dalla Croce, ed ora, deposto, soltanto ai Bianchi (i galantòmini) era concesso portare a spalla fino alla Madrice.

Popule meus, quid feci tibi, aut quid molestus fui tibi? (Mich. VI, 3) intonavano i Fratelli privilegiati, in coro a mezza voce

Miserere mei, Deus!, rispondevano i chierici e i sacerdoti «in nigris». E come passava il Santissimo, all'ombra del gran baldacchino di damasco, il popolo, a capo scoperto, s'umiliava in ginocchi.

Poi raggiornava il sabato; e le finestre velate, la cantoria sotto la grande tela, si destavano a vedere il nuovo Cristo Risorto in cima dell'altare, tra il volo di cento passeri giovani, insieme liberati nella grande navata della chiesa.

L'indomani (domenica di Pasqua) ci dovevamo alzare assai più presto e seguire l'apostolo san Pietro (gigante mattiniero dal camice azzurro e le chiavi di legno, grandi grandi) il quale si metteva a "perlustrare” il paese, scrutando ogni cortile, caso mai vi trovasse il Redentore, per poi correre a dar la notizia alla Madonna delle sette spade, e far la “Giunta” tra la Madre dolente e il Figlio resuscitato.

Si scioglievano tutte le campane; il cielo mutava in gioia di popolo il dolore, faceva fiorire ai piedi d'ogni croce una speranza, saldava le pietre nella luce, ogni distacco nella fede.
Sul piano di Santa Maria, sotto le acacie in fiore, c’erano i torronari con le caprette e i pesci di zucchero rosso e trasparente; e il lupinaro, col sacco tra i ginocchi e la quarteruola dei “lupini” in mano, colma d'oro e di neve; poi le terraglie di Sciacca, le lucernette di Licata, gli orciòli di Calatafimi, le terrecotte ai Caltagirone, le anfore lentinesi che tengono l'acqua fredda, i “bucali” di Gela, le « bacaredde» di Santo Stefano Camastra, le borracce di Collesano col “giovane che fuma” e il grappolo d'uva in rilievo. E finalmente il ferraro: seduto come un turco dentro un cerchio di zappe, di roncole e falcetti.

Lèvati, figlio; e lavora contento - diceva l'aria a mio padre. E mio padre ci sollevava per le orecchie, perchè crescessimo «latini»: cioè, come s'intende in Sicilia, quando si dice «latino»: crescessimo forti e diritti.

Questa era ed è la settimana santa degli erbitensi, che sono prigionieri della distanza e dell'azzurro, più di ogni siciliano. Chi vuol conoscerli dev'essere capace di scoprire, sotto la scorza dura, quei teneri germogli che crescono al buio, nel cuore di tutti i siciliani, e somigliano al frumento cresciuto nei Sepolcri, in un calice d'acqua cristallina.