Nota biografica

In questa sezione del mio blog raccolgo racconti, ricordi e testimonianze dell'avvocato/professore Lorenzo Pittà, una persona schiva e gentile  che visse gran parte della sua vita in Aidone, in quella casa che si affaccia sullo stupendo panorama che dalle propaggini occidentali degli Erei digrada verso la Piana di Catania, dominato dall'Etna maestosa, nei giorni più chiari lascia intravedere la marina catanese.

Devo al nipote Vittorio Lingenti il piacere e l’onore di avermi permesso di leggere questi preziosi testi e di poterli divulgare. Vittorio ha trovato dei ritagli di giornali tra le carte e i libri dello zio quando ha aperto ai visitatori la casa dei nonni, facendone un piccolo museo "A casa du masser". É la stessa casa dove ha vissuto tutta la sua vita Lorenzo Pittà, che vi ha abitato fino alla morte senza apportarvi quegli ammodernamenti che sarebbero stati normali negli anni sessanta e settanta del secolo scorsoi.

Avvocato, insegnante e, a quanto abbiamo scoperto, giornalista e scrittore, nacque il 10/01/24  in Aidone in una famiglia agiata di massari, proprietari terrieri, e qui morì il 18/03/73. Si era laureato in giurisprudenza all’Università di Catania, aveva avuto brevi esperienze di lavoro nel nord Italia ma era sempre tornato in Aidone, forse per non lasciare sole la mamma e la sorella.

Fu incaricato presso la biblioteca comunale Cordova Scovazzo e poi si diede all’insegnamento. Nel 1955 seguì molto da vicino la campagna di scavi nel sito di Serra Orlando e Cittadella. Ebbe la possibilità pertanto di conoscere il professore Sjoqvist e lo stesso re Gustavo. Il 6 dicembre 1955 il Soprintendente per le Antichità per la Sicilia Orientale, Luigi Bernabò Brea, gli comunicò che il ministero della Pubblica Istruzione lo aveva nominato Ispettore onorario per le opere di antichità ed arte per il comune di Aidone, compito che svolse con serietà e scrupolo. Lo stesso Bernabò Brea gli consegnò copia della  sua relazione alla fine della campagna di scavi. Nel 1973 è ancora Ispettore Onorario come si evince da una lettera inviata a lui dalla Sovrintendenza Regionale.

Amici, vicini, allievi lo ricordavano come una persona schiva, gentile, a volte brillante e dalla battuta pronta, ma anche molto fragile. Forse viveva una vita diversa da quella desiderata, il senso del dovere lo teneva legato alla mamma inferma; insieme alla sorella fin da piccoli ne avevano accompagnato le necessità rinunciando ai giochi e ai piaceri giovanili pur di starle accanto. “A casa mia venivano invece poche persone e i visi più noti erano di quelli che badavano alla casa e a fare il pane per la campagna. Mia madre era sempre ammalata e forse alla gente non piaceva sentire come soffriva: me ne è rimasto il segno nell’anima. Così i vicini e i parenti per lo più ci venivano di tanto in tanto e per convenienza…Mia madre quelle sere che uscivamo temeva sempre per la mia salute, e nella sue voce c’era come una preghiera perché desistessimo dall’uscire. Ma io dietro i vetri soffrivo al pensiero di starmene a casa, mentre fuori nella strada gli altri bambini andavano rincorrendosi gioiosi.” (da “Il gallo cantò invano”)

Aveva vinto dei concorsi che lo avrebbero portato a lavorare a Roma o al Nord Italia ma aveva poi rinunciato. Con il Nord aveva mantenuto questo rapporto di amore facendosi pubblicare proprio da giornali del Nord (La Prealpina, il Corriere Valtellinese, L'Eco di Bergamo, Il corriere di Brescia) i suoi racconti ed i suoi articoli, i racconti solo dopo vedranno la luce sui quotidiani siciliani.

Quella casa, rimasta tale e quale, ci racconta il suo amore per la lettura, per la musica ma anche di tanti altri interessi. I suoi scritti, pochi in verità ci presentano una persona colta e sensibile, innamorato, nonostante tutto del suo paese che descrive con tenerezza (Leggi il raconto qui giù inserito: Un piccolo mondo paesano). Ma questo non gli impedisce di ricordare con ammirazione e nostalgia i luoghi brianzoli, tanto da fargli desiderare di farvi ritorno. Ecco un articolo in cui ci descrive le sue prime esperienze in Lombardia sul Ramo del lago di Lecco, nei luoghi di manzoniana memoria dove i personaggi dei Promessi sposi sono protagonisti ma non altrettanto, secondo Pittà, è tenuto nella giusta considerazione l'Autore. Faccio ammenda inserendo uno scrorcio della Villa di Manzoni a Lecco, oggi museo.

Voglio tornare in Brianza!

Lecco . Casa di Manzoni

VOGLIO TORNARE IN BRIANZA!

Verdi colline, paesini dai campanili svettanti, chiese dagli ampi sagrati: a sera dalle pievi le campane che suonano l'Ave invitano gli uomini a sostare; e a ogni passo incontri Agnese e la più bella delle Lucia

Ad agosto tornerò in Brianza. E' da tempo che ho in mente di andarci. Poi ne ho fatto sempre a meno. Ma questi giorni i ricordi mi urgono, come se lì avessi lasciato la fanciulla amata. E certo non sarà come per il passato, quest'anno. Ci andrò davvero ad agosto.

Quando ci arrivai la prima volta era di notte. Il trenino parti dalla stazione di Milano carico di operai, gente che parlava un incomprensibile dialetto. Avevo fatto centinaia di chilometri e sentivo che mi oppisolavo. Pregai il mio vicino di posto perchè mi svegliasse al paese che gli dissi, ove mi aveva detto anch'egli di esser diretto. Balzai invece per un tremendo urto: avevamo deragliato a causa di alcuni buoi, smarritisi nella nebbia. Abbagliate dai fari, le povere bestie non avevano fatto a tempo a mettersi in salvo. Se fosse stato alcuni metri più la, saremmo precipitati in un burrone.

Ci toccò fare a piedi alcuni chilometri. Il mio vicino mi aiutò a portare lo valigie e ci incamminammo per quel paese. Era tutto coperto di neve. Nei crocivia una cappelletta; pei colli un grande silenzio; la luna camminava con noi sul dorso dei colli.

L'indomani mi svegliati nel letto dei miei ospiti che era mezzogiorno. Quando andai alla finestra non seppi capire per dove ero venuto. Dal cielo filtrava una luce azzurrina. Pei colli coperti di nere spuntavano alberi nudi. Di fronte alla mia finestra una casa dipinta di verde, qua e là altre casette dipinte anch'esse. Era un paesaggio lindo e sereno: io venivo dalla tormentata Sicilia e mi sentii rinascere. Verdi colline, paesini dai companili svettanti, chiese dagli ampi sagrati: quando la neve si sciolse e fu primavera io non mi stancavo di ammirarvi dalla casa di Bevera. Questa era di un mio piccolo e caro amico e guardava verso Lecco. Giù si stendeva una conca ridente di paesini: di fronte le Grigne e il Resegone. Quando andavo per questi posti, a me pareva di imbattermi da un minuto all’altro con don Abbondio. L'Agnese la vedevo ogni giorno, invece, un po' fuori del paese ove abitavo. E con Agnese la più bella delle Lucie, e così bella che un giorno ne chiesi al medico condotto. Questi mi sorrise e lasciò cadere il discorso.
Di domenica gli ospiti dove io stavo non erano soliti andare in chiesa. Ma io ci andavo a Messa. In chiesa gli uomini sedevano a destra, le donne a sinistra. Il curato officiava in rito ambrosiano, e in brianzolo diceva il suo sermone, come anche in brianzolo i fedeli cantavano gli inni al Signore.

Ho sempre ricordato quel canto. Era pieno di forza e di dolcezza. Si levava per l'alta navata come un atto di fede. Io guardavo quei visi e quella compostezza: la chiesa era piena zeppa di fedeli. Ma la sera e la notte della domenica era dedicata al simposi. Gli uomini bevevano a più non posso, per le tante cantine, certo vinello nero e asprigno che a me non piaceva affatto. Credo che ce ne dovevano volere degli ettolitri per farli diventare ubriachi. Poi l'indomani tornavano tutti al lavoro verso Milano, alle tessiture, alle filande. Ricordo la volta che entrai in una di queste tessiture: rimasi in cantato di fronte a un vecchio arcolaio. Ci badava una fanciulla dalle bionde trecce, gli occhi grandi e un pallore di volto che la facevano di fiaba. Era fidanzata a un operaio di una filanda e mi diceva che si sarebbero sposati presto. E un giorno venne davvero a portarci i confetti e a parteciparci che si era sposata.

Ché li vanno sposi senza tanti spagnolismi, con grande semplicità, e senza il codazzo di parenti, amici e non amici, come usano nei paesi siciliani.

Verdi colline di Merate, di Barzano, di Cantù, di Lecco, di Verdegò, a sera dalle pievi le campane che suonavano l'Ave pareva che invitassero a sostare. Ma rendevano grazie al Signore invece per la ricchezza di quei posti. Era un suono di campane in concerto che si chiamavano dall'uno all'altro campanile. E io sostavo a sentirle, dicevo a me che bello sarebbe stato fermarsi.

Un giorno capitai a Merate. Ci aveva studiato il Manzoni lì, in collegio. Si teneva mercato, e dai paesi vicini era venuta tanta gente. Andai al collegio, un vecchio edificio al quale si accedeva da un cancello di ferro. Suonai una campanella e vennero ad aprirmi. Mi aggirai per le aule e i dormitoi. Dissi al preside se esistesse qualcosa del Manzoni. Non c'era niente. Quando uscii, incamminandomi verse l’osservatorio astronomico, per quelle viuzze invano mi sforzai di vedere il piccolo Manzoni a passeggio con gli altri compagni. Quei posti sono solo pieni del ricordo dei personaggi e della vicenda manzoniana, il piccolo Manzoni rimane confinato dentro il collegio. Infatti basta uscire un pò da Merate e per le tante stradicciole e i tanti paesini (ché tutti si vantano di essere quello del Manzoni), ed ecco rispuntare don Abbondio e Agnese e Lucia e Tonio e Gervasio.
Un altro giorno andammo all'Adda. Era di maggio. Qua e là si ballava: doveva essere festa. Passammo da Brivio. Dal suo Castello si vedeva il corso dell'Adda, che placida scorreva tra gli alti canneti. Un castello popolato di eroi medievali e di spiriti.
E' il Cantù che in un libro sulla Brianza ne narra le leggende, la storia dell'Innominato, certe cronache, l'antica civiltà. Me lo prestò una gentile ragazza, alle quale avevo fatto leggere i Malavoglia del nostro Verga. Ricordo che quando le parlavo della mio Isola, questa amica di Brianza faceva tanto di occhi come se le parlassi della Paupasia, La mia isole contava per lei solo per il sole, le arance, i briganti. E i Siciliani? Tipi strani.

Così ho in mente di regalarle “Questa Sicilia”, il bellissimo libro del siracusano Aglianò, che dovremmo tutti leggere, noi isolani e rileggere. In fondo è vero. La nostra terra à curiosa, e non per i Brianzoli. Ché tutti scendono quaggiù quasi volessero scoprirla, dopo quattro giorni di permanenza. Quasi non fosse la Sicilia un lembo di questa curiosa Italia. Lorenzo Pittà. 15 giugno 1952 

Un piccolo mondo paesano

Aidone - panorama  del  Quartiere san Giacomo

Un piccolo mondo paesano
Sembra che tutto si sia fermato nei secoli e che uomini e cose se ne stiano immoti ad aspettare

Attraversammo la piana nel mattino sereno. L’Etna scioglieva l’ultima traccia di neve, giganteggiava sopra gli agrumeti di Paternò. Da questa altezza distese di campi spogli di alberi ove il verde è un oasi, le mulattiere incominciano ad essere le vie maestre e l’acqua si va a prendere con le brocche. Quando, tutta la piana rimane indietro e Castel di ludica e Raddusa sono alla destra, Aidone appare. Sta di fronte, sulla pendice di un monte che si staglia nel cielo e s’incurva in una schiena di sella, in cui l’arcione resta arditamente sospeso su una valle profonda. Ad Aidone l'abitato, le viuzze e gli orti, a levante, stanno come a un balcone, dal quale si domina la piana, i campi di Caltagirone e Lentini, i monti di Troina, il mare tra Catania e Augusta: il paese è a circa 900 metri sul livello del mare. Alla sommità del monte, donde si vede Enna, i ruderi di un castello, che i saraceni, occupato il luogo, costruirono dopo l'862 «Inaccessibil per ogni dove, sopra una rupe tagliata a picco fuso con la roccia». E lo storico paesano ci dice pure che qui nel 1411 soggiornò Bianca, la bella figlia di Carlo Navarra, andata sposa all’ultimo degli Aragonesi.

E ad Aidone gli Arabi eressero moschee (Sant'Anna e Sant'Antonio); i Normanni chiese come Santa Maria lo Plano, dalla bella torre Adelasia. Nel convento di San Michele ebbe sede un tribunale dell’inquisizione «che giudicava e puniva nelle tenebre della notte»; a un frate Leonardo si deve San Domenico, del cui tempio è rimasta la sola facciata.

I quartieri più antichi hanno viuzze strette, casette fabbricate col gesso che si sostengono a vicenda, stancamente. Ma le costruzioni in pietra arenaria rossiccia sono quelle che danno, all’occhio del forestiero, un volto al paese, il volto di un britanno, giacché la malta friabile presto denuda le facciate. Il paese si adagia pure sulle pendici di mezzogiorno e di ponente. Due piazze, un bel municipio, una passeggiata dal meraviglioso panorama. Dalla passeggiata si può andare a Sant’Anna. Qui un crocifisso di frate Umile da Petralia Sottana ci dice di un soggiorno aidonese dello scultore al quale si devono i più bei Cristi in legno dell'arte isolana.

Il frate scolpiva pervaso da un sacro furore. Chiamato di convento in convento lasciò il segno della sua arte in più paesi della Sicilia. Ora avvenne, narra la leggenda, che quando si trattò di scolpire la testa di questo crocifisso aidònese l'artista non si sentisse. Per più notti pregò ardentemente il Signore affinchè gli guidasse la mano. Ma gli occhi per il piangere gli si erano tanto arrossiti e il corpo per il digiunò tanto indebolito che le forze gli mancarono. Quand'ecco una notte la cella riempirsi di luce, una voce guidarlo nella chiesa, una mano armargli le mani dei ferri e quandi fu l’alba ai frati accorsi si mostrò il miracolo del crocifisso aidonese.

Anche qui le facciate sono tappezzate di manifesti di ogni colore politico: echeggiano ancora la recente battaglia elettorale. Nella piazza più larga non è stato imbrattato solo il monumento di Filippo Cordova, grande e misconosciuto figlio di questa terra. Cospiratore e ministro delle finanze nella rivoluzione siciliana del '48 gli si deve un progetto per la fondazione del Banco di Sicilia, l'istituzione del gran libro del debito pubblico, la battaglia per l’abolizione della tassa sul macinato. Amico del Cavour, poi ministro, padre della statistica ufficiale, lo condussero a morte la camorra e l’affarismo, pei dispiaceri che gli vennero dal marcio che denunciò esservi nella costruzioni dei canali Cavour e nel corso forzoso della moneta cartacea (1867-68).

Da tempo il ministro impassibile osserva la stessa tempra di tribuni vestiti di sempre nuovi colori. Certo egli non vede più il landau del barone; nè, se darà un’occhiata in chiesa, sola e distante dalle prime file di panche, vedrà la baronessa; nè là ogni donna portare il vestito che allora si addiceva alla posizioni sociale di ognuno. Ma non basta che in chiesa chi arrivi prima si sieda avanti. Troppo poco in un secolo. Perchè se ti guardi attorno, per il paese e per le campagne, come in molti altri paesi e in molte altre campagne dell’interno sembra che tutto si sia fermato nei secoli e che uomini cose se ne stiano immoti ad aspettare. Giacché i piccoli mondi paesani aspettano sempre. Da tempo, ad esempio, per le strade, per le fognature, per la luce, per l’acqua, per le case, con la pazienza dei poveri e la fatalità degli arabi. E gli uomini, quelli che lavorano in silenzio, sono fatti solo per solo per lavorare e aspettare. Gli altri sono gli intellettuali da caffè, amano il quieto vivere, fanno e disfanno il mondo, sputacchiano sui credi politici, rimpiangono il passato, scontenti di sè e del presente. Ma nel passato erano anche così.

Aidone è uno dei piccoli mondi paesani anche se ha strade da secoli e luce e acqua da cinquantanni; a parte il fatto di essere per la sua posizione uno dei più incantevoli posti dell'interno.

A sera riprendiamo la via del ritorno. A dieci chilometri dall’abitato ci fermiamo, guardando la strada percorsa. Le case di Aidone sembrano innumeri dadi addossati al monte; le porte e le finestre tanti piccoli «occhi» di dadi. Poi lassù le luci si accendono. Ancora un poco e le lampade pubbliche splendono disposte come in un altare, contro il cielo stellato. LORENZO PITTA’

pubblicato sul "La Sicilia . Quotidiano liberale"- di sabato 7 luglio 1951

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