O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. XII

CAP. XII

La novena è finita. Agata è certa che il miracolo non potrà mancare e perciò attende in santa pace, come la terra, quando preannunzia i segni della luce.
Gli occhi le sono diventati più chiari e sembrano più grandi sotto l'arco lunghissimo delle ciglia; il naso, più affilato; le dita, affusolate; tutta la pelle, più bianca.
Pare che la speranza la sostenga, come la trama che tesse di venature azzurre la trasparenza di certe lampade alabastrine. Ma la grazia non giunge.
Eppure, sono cadute tutte le stelle del gelsomino; e la piccola pergola è stecchita contro il cielo.
Nessuno, quando c'è lei, parla di cose serie: si vuol ridere, stordirla.
Ahi! Ora le si fermerà il cuore, certo: tutto il suo corpo ha vibrato... Che avviene? Che avviene? Abbi pietà, Madonna!
Agata si fa piccola piccola, come allora, con le mani appese alle treccie, sul petto, per non morire, mentre egli la bacia, e c'è una grande luce, un infinito spazio di luce nella villetta, tra le rose, nel sangue...
O Maria, Madonna delle rose! Egli giunge. Mi tocca. Mi bacia un'altra volta...
Ma le rondini passano lontanissime. Qualcuno è scivolato nel tempo senza limiti: ecco una lettera da Lanusei, col timbro e lo stemma comunale, che è un albero nudo tra due roccie.
Don Marco, che l'ha portata, è sconvolto: fa cenno di tacere alla moglie e a Teresa, ed entra in punta di piedi, per non farsi udire da Agata, intenta a rammendare, nella sua camera.
La lettera è breve e chiude, in mezzo, un ritaglio del Nuraghe: nel ritaglio, si legge: “La fatale imprudenza di un pretore » e, sotto questo titolo, dieci righe... Il nome di Morelli... caccia in riva al Tirreno... infuriar di cavalloni... un'anitra in mezzo ai marosi... la spoglia del naufrago… introvabile...
E' finita.
La parola spaventosa li schiaccia: la signora Assunta si siede in modo così strano, che pare morta; don Marco s'è accasciato con le braccia inerti e la bocca semichiusa; Teresa sola ha la forza di parlare, al solito: ma questa volta ha nel cuore una spina di rimorso per quel che ha potuto pensare, sospettando di Morelli:
-Ah. Signore! Perchè? Ora bisogna assolutamente farsi forza e mentire per lei, per Agata!
Stracciarono la busta, la lettera, il ritaglio del giornale. E da quell'ora cominciò per essi un nuovo martirio. Il padre finse di permettere ad Agata, che, sì, pazienza, scrivesse lei per prima, a Morelli.
- Io., - diceva Teresa, - se fossi al tuo posto, vorrei dimenticarlo. Ma tu, con quelle trecce, sei sempre una bambinona. E dunque, scrivigli. Però, se non ti risponde (o Signore… può rispondere un morto?!) ... se non ti ri sponde, basta.

Ed Agata “gli” scrive.
Come fare? Incomincia appena e già trema tutta. Bisogna essere calma, santo Iddio! Avanti.
« Amore mio...
Le lacrime bagnano la carta: e le due parole si allargano smisuratamente sul foglio.
 

Molta gente, in prefettura, aspettava d'essere introdotta da Lavriano; ma Ricobelli passò davanti a tutti e, senza farsi annunziare, entrò.
La stanza era severa, tappezzata in color cremisi, e con le pareti quasi nude.
Dietro l'ampia scrivania, Lavriano stava sfogliando i giornali della mattinata.
A vederlo senza ch'egli lo sapesse, pareva stanco, affannato, con la fronte scavata da due rughe dritte, profondissime.
Certo, non era bella la sua posizione di prefetto mandato a rappresentare in Sicilia lo spirito nuovo del Governo.
Venuto dal paese di Gioberti, dove la legge è popolo e Savoia, per meglio approfondire la conoscenza della provincia affidatagli, si era subito messo in rapporto immediato coi cittadini.
Nutrito di pamphlets, di gazzette, di libri e di relazioni sul preteso disprezzo dei siciliani per l'Autorità, aveva capito che lo stato di spirito denunciato dipendeva soprattutto dalla asprezza dei partiti locali e dall'arbitrio degli amministratori, fino alle estreme conseguenze.
Talchè, dopo i primi accostamenti, si era aspettato di vedere aperte le bocche dell'inferno; invece, no: qualche lamento sulla gravezza dei balzelli: lievi accenni all'impolitica del suo predecessore: poi, la pace degli angeli!
Tutto in regola!
Governare questa provincia? uno scherzo! Basta appoggiarsi a Tizio...
Gara di consigli: nomi che cambiano ad ogni mutar di vento.
E a poco a poco la verità si svela: i bilanci abborracciati ad uso di “osservanti”, rendite pubbliche devolute abilmente ai a “compari”: gioco di bussolotti nei ruoli e nelle liste elettorali: intrigo, astuzia, prepotenze!
S'era messo a combatter di lena, senza remissione: ma contemporaneamente aveva veduto il livore dei « procaccianti » cui toglieva prestigio e profitti disonesti, irretirlo di congiure tramate con calunnie e minaccie, manovrando perfino nei corridoi di Montecitorio.
Al suo posto, un altro avrebbe già ceduto: egli, invece, vistosi accerchiato e mal sostenuto a Roma, nonostante il suo nome, si era messo a bordeggiare con sapienti colpi di timone, finchè si era ancorato nel portorifugio detto “l'onorevole”.
Ed ora, concedendosi inavvertitamente fin quasi a tollerare gli stessi mali una volta combattuti, faceva credere a tutti d'essere uno strumento nelle mani dell'onorevole.
In realtà, un metodo per vincere: irrivelato e sottile.
- Venga, provveditore. - disse come ebbe visto Ricobelli.
E la sua faccia si schiarl.
Poi Ricobelli lo vide chiuder gli occhi un momento con la fronte riversa, per il solito “bagno di silenzio! che precedeva i suoi colloqui.
- E così? - disse ancora. - Ha bisogno di me? Perchè non entra?
Si strinsero la mano, con calorosa simpatia. La provincia va ben? - cominciò Ricobelli.
- Mej nen parlene! - rispose Lavriano. - Meglio non parlarne!
Ricobelli si dispiacque d'aver cominciato male e quasi temette di non riuscire a interessarlo alla causa del povero D'Auria, di cui aveva portato tutto «l'incarto» per sottometterlo al prefetto.
- Domando scuse... - disse impacciato. - Gnente, gnente, perbacco. E' doi ani che batto, e la bestiassa non cede... Ma vincerà chi è più duro: vedrà.
- Ecco, volevo appunto fare appello a questa sua forza, signor conte: un caso d'ingiustizia proprio tipico…

- Storia ed tuti i di! Di che si tratta?
- D'un povero maestro sospeso a torto dal posto.
- Prepotenza?
- Si sa. Ma il bello è questo: che la prefettura lo ha reintegrato e il sindaco si oppone.
- Ah, perdiol Chi ch'a l'é?
- Certo Marco D'Auria...
- Ma chi as ricorda più! Di qual comune?

- Erbita.
- Cuntacc! Ora sì, che ricordo: è venuto perfino in prefettura, a pregarmi ch'a lo salveisa, e se sforsava per disciòdesse la lenga, poveromo! ch'a l'avia el cheur pien de lacrime! E ben? Sentiamo: son curios ed vede fin dove arrivano quei mascalzoni.
E tolse di mano a Ricobelli la “pratica” che gli porgeva.
Era nervoso; le dita gli tremavano sui fogli: lesse attentamente la più piccola nota: alla fine scattò, si riprese, poi premette col pollice sopra uno dei bottoni a bianconero disposti come una tastiera all'angolo destro del tavolo.
Subito venne il capo di gabinetto, che a Ricobelli parve antipaticissimo con quel nasino a becco sulla faccia di gufo e lo sguardo accigliato dietro lo schermo degli occhiali.

Salutò con un cenno del capo: e Ricobelli vide che aveva sulla cervice pelata un bernòccolo grosso quanto una noce, coperto da un cappelletto di cuoio.
-Signor Pagliòlo, - disse Lavriano,- uno di questi giorni abbiamo ricevuto un secondo ricorso di quel... D'Auria, ricorda?, che era stato sospeso e da noi reintegrato...
- Quello ch'è sottoposto a procedimento penale?
- Macchè procedimento! - interruppe Ricobelli. - Se fu assolto! -
Lavriano lo fulminò con gli occhi. Poi ripetè a Pagliolo:
- Sicuro: proprio quello. C'è un secondo ricorso, o dico male?
Il capo di gabinetto era distratto. Rispose:

- Cercherò... Si... mi pare... Ci dev'essere...
- Vuol vedere un momento?
L'ometto s'inchinò e sparve.

- Lei mi guasta le carte, Ricobelli! - disse allora Lavriano. - Qui, caro lei, per tirè drit el solch, bisogna destreggiarsi a drita e a snistra: mi lasci manovrare, e stia calmo.
Tornò Pagliòlo: e il prefetto finse di scorrere attentamente il ricorso.
Ma cosa vuole, da noi? - disse alfine. - Se il sindaco non crede d'applicare l'articolo 186, avrà le sue ragioni. Le carte sono carte: e da lontano ogni cosa cambia figura. Io non posso cestinare il parere di un sindaco: o scherziamo?
- Esatto, esattissimo! - approvava il capo di gabinetto.
- Erbita è collegio del nostro... (e guardò negli occhi il signor Pagliòlo).
- Precisamente, - fece questi, scotendo la testa.
- D'aspertut l'è la stessa canson! Per fare il comodo di questi sgnori, si dovrebbe impiccar l'Autorità... Ma poi, qui, cosa c'entra, ormai, la prefettura?
- Benissimo! Benissimo! - faceva Pagliòlo.
- Ecco, dunque, (e si volgeva a Ricobelli) eliminato il conflitto d'attribuzioni che Lei, Provveditore, giustamente ha rilevato. Sono certo che, nelle sue mani, tolto questo inconveniente, la pratica andrà più spedita. Quanto a noi, Pagliòlo... Atti nulli, atti nulli! Noi non abbiamo tempo da sprecare (e gli porgeva le carte).
Il capo di gabinetto era raggiante: poiché, per lui, ogni scartoffia che andasse a finire al- l'archivio era un peso di meno sullo stomaco.

- Allora, disse, vuol firmare il “visto”?
Segnò a matita rossa una «N» colossale sul frontespizio dell'incarto, poi scrisse in calce la consueta formula « visto, agli atti nulli » e mise la pratica sotto gli occhi di Lavriano. Il quale firmò, con perfetta indifferenza.
Dopo di che, Pagliòlo si ritirò, soddisfatto dei suoi arcani politici.
- Ed ora, - disse il prefetto a Ricobelli, che aspettava di capire - a sarà mej che diamo una lezione a coi sgnôri, che a tardran pi nen tant a ubbidire, perdìo!

Trasse dal suo tiretto il protocollo riservato, apri la cartella sul tavolo, prese un foglio intestato e scrisse: «Favorisca immediatamente in prefettura ». Firmò, mise il bollo « personale », poi scrisse sulla busta «Sindaco di Erbita» e la consegnò a Ricobelli, dicendogli:

- Bisogna impostarla subito, prima che l'onorevole (a quest'ora informatissimo) ne inventi una delle sue... Ed uscirono dalla scaletta interna.