IL PAESE MERAVIGLIOSO

IL PAESE MERAVIGLIOSO -  29 novembre 1964  “La Prealpina”

Se penso al mio paese di Sicilia è dalla Piana di Catania che ci arrivo, e in piena primavera, chè solo allora è tutto verde per quelle distese di campi. E già mi vedo sulla stradale che da Catania va verso l'interno, nell'Ovest. L'Etna, ancora bianca di neve, giganteggia sopra gli agrumeti di Paternò, per un lungo tratto mi sta alla destra e la sua cima tocca il cielo. È la Montagna: così la chiamano quelli della città. Che importa se appena esci da Catania questa terra ferace è tutta una meraviglia di filari di viti, di ulivi, di mandorli, di aranci? Più in là, nella Piana, è latifondo, terra nuda, ove d'estate il verde è un'oasi e le mulattiere polverose sono le vie maestre e l'acqua si va a prendere con le brocche a dorso di mulo e costa ore di cammino.

Dal latifondo io cerco d'indovinare il mio paese fra le lontane cime dei monti Erei. E presto so bene distinguerlo il monte, che a mo' di sella si staglia sopra gli altri e sul quale si adagia l'abitato. Le sue case, le viuzze, le piazze, gli orti, le chiese, il Castellaccio a San Nicola, gli abitanti? Sembra che tutto si sia fermato nei secoli e che uomini e cose stiano immoti a guardare. Pure anche questo è un mondo, dove si nasce vive muore, anche se pare non ci siano passate guerre o pestilenze e tutto vada come fuori del tempo odierno. Io ad esempio vi nacqui in una casa che sta sul dorso del monte e guarda a levante l'infinito, e oltre la strada ha un orto e un cipresso, e a lato una chiesa, ora non più tale, se ci sono appena i muri maestri e a primavera, per i mille buchi della fabbrica, è solo regno di passeri cinguettanti.

Dalla mia casa imparai presto a conoscere questo mondo. II primo ricordo è di quando veniva la neve e io bambino la vedevo cadere, da dietro i vetri, sui tetti delle case sottostanti e negli orti. Ricordo che tesseva bianchi arabeschi ai rami del cipresso e quando c'era vento mulinando si addossava all'angolo della via. Rare volte in quella mia infanzia vidi un bianco lenzuolo da Enna ad Agirà, da Raddusa a Castel ludica, da Ramacca a Caltagirone: solo Mongibello per metà dell'anno era sempre immensamente candido, lì a sinistra guardando. Ma a me bambino tutto pareva candore sotto la neve. Doveva essere perchè era tanto attesa su quelle case di gesso, sporcate dall'incuria dell'uomo, indifferenti all'indifferenza del tempo, su quelle viuzze misere assai. Poi, come per una sua millennaria monotonia il verde primaverile dei feudi si avvicendava allo squallore dei mesi in cui i campi cadevano inerti avendo dato le bionde messi, all’autunno denudate, al primo inverno dalle brune arate distese. Solo l’Etna, quel tempo, poteva per me godere a lungo la gioia di un candido manto, essere diversamente bella.

Ora, se penso alla mia infanzia, è tutto che sa di meraviglioso per quel mio paese, anche il mondo che mi si spalancava dai balconi di casa. Ricordo che al sorgere del sole, nelle serene giornate di primavera, i colli della Piana disegnavano nitidissime le loro sagome le loro ombre sembravano giungere fin sotto il paese. Poi si levavano qua e là per l’ampia aperta distesa nebbioline che parevano vaganti nuvole di incenso e che sostavano a lungo nella conca del feudo Calvino.

“Mamma – chiedevo da dietro i vetri – come si chiama quel posto e lì dov’è?” Vallate, colline e campagne e ognuna un nome. E come la mamma rispondeva, chissà perché, io seguivo il nastro dello stradale che bianco si snodava a perdita d’occhio a lato del serpeggiante corso del Gornalunga. Ma era quando l’accompagnavo a san Nicola*, che è il punto più alto del mio paese e ha sotto di sé una voragine profonda e tutte le campagne, che la mamma me le indicava una a una. Ecco da San Nicola il feudo del Bosco, di San Bartolomeo, del Tufo, la Tenuta di Prato, Castel di Gresti, Mendola. Stanno di là dalla riva sinistra del Gornalunga. E il feudo del Baccarato, di Toscano, di Fargione, Crunici, Casal Gismondo, Malaricotta, lì a destra voltando le spalle al mio paese. Avanti, a specchio, quelli di Feudonuovo, Poggiorosso, Belmontino superiore e inferiore, Calvino, Spedalotto, Cugno e le campagne di Colla, San Leonardo, Commenda, Scalidi, del Travo, di Giresi. Migliaia d ettari con appena qualche masseria qua e là e presso il paese le casette dei piccoli appezzamenti; feudi e feudi, dove si va a lavorare a dorso di mule, scendendovi di notte e salendone che è giorno per stradine impervie o per mulattiere. Bambino le nebbiose sere d’inverno amavo sentire questo passo ferrato di animali, mentre si si spegneva lontano sull’acciotolato delle viuzze. E fin d’allora mi prendeva tanta una pena di uomini e di animali e mi pareva fossero dannati in eterno, se non c’era vento e pioggia che li tenesse in casa. Ma ora che ci penso per la gente del mio paese questo lavorare è come una religione, religione di primitivi impastoiata alle radici di un ancora attuale feudalesimo, a un passato dove hanno solo regnato falsi cristi, baroni e briganti, re di uomini senza volto. È vero: per quegli sterminati latifondi gli uomini vanno ancora dietro all’aratro a chiodo e nelle urne depongono un voto di cui non hanno pesato la portata e non conoscono che da secoli altra gente ha conquistato quasi tutto. Pure anche loro sono uomini che nascono vivono prolificano muoiono in un mondo in divenire , un mondo che così com’è ha una sua ragion d’essere: porta nuova linfa, appena mette il capo fuori dall’uscio, inconsciamente assetato com’è. Così le case del mio paese povere di pane, sono sempre piene di figlioli: pare si beffino delle teorie sulla nascita, come i ricchi si beffano dei poveri. Da poco questi figlioli hanno ricominciato ad abbandonare la loro terra. Lo credereste? Molti non si voltano più a guardare indietro.

Ma da primavera ad autunno inoltrato questo mio paese vive ai balconi, alle finestre, nelle vie, per gli orti e per i campi la sua dura vita. Nell’inverno la nebbia, salendo dalle valli, lo isola dal mondo circostante per intere settimane e quando ridiscende, alle improvvise schiarite, solo i cocuzzoli sottostanti al monte dov’è posto l’abitato emergono appena dal mare di nuvole. LORENZO PITTA’

* Pittà usa San Nicola per indicare il piano del Castellaccio, che è il punto più alto di Aidone; oggi con questo toponimo si intende invece la zona del Balzo di san Nicola, lo sperone di roccia che si affaccia nel vuoto per molte decine di metri, la zona in epoca medievale frequentata da eremiti che vivevano nelle grotte. 

(Pubblicato il 29 novembre 1964 su “La Prealpina” , un quotidiano che, con alterne vicende aveva cominciato il suo percorso nel 1888 avendo come area di riferimento le regioni alpine del Piemonte e della Lombardia.)