La leggenda del Cristo di Sant'Anna in Aidone

LA LEGGENDA DEL CRISTO DI SANT'ANNA

PREMESSA

È la volta ora della terza “leggenda paesana”, la più famosa, quella del Crocifisso di Sant’Anna. La bellezza drammatica, e nel frattempo dolce ed elegante del nostro Crocifisso, uno degli oltre trenta scolpiti da Fra Umile da Petralia, ha fatto nascere la leggenda che solo la mano divina potesse esprimere tanta bellezza, mistero, dolore e serenità. In effetti la tradizione dell’origine miracolistica di molti dei crocifissi di Fra Umile fu in qualche modo incoraggiata dagli stessi Francescani. Tutto in quest’opera d'arte riconduce al contesto storico, religioso e artistico in cui lavora lo scultore: i canoni della Controriforma e la dominazione spagnola, l’obbiettivo di riportare alla fede grandi fette della popolazione del meridione d’Italia a lungo trascurata, il barocco imperante che nel tripudio di forme e colori si esercita su un realismo fino ad allora sconosciuto che, unito alla necessità di creare patos e partecipazione, indugia, nei Crocifissi e negli Ecce Homo, sulle ferite, il sangue colante, le rappresentazioni della flagellazione.

Fra Umile, al secolo Francesco Giovanni Pintorno, nacque a Petralia Soprana nei primi anni del 1600 e morì a Palermo il 9 febbraio 1639. E' sepolto nella Chiesa di Sant’Antonio da Padova dove aveva scolpito l’unico crocifisso presente a Palermo. Nello stesso convento era entrato, nel 1623, nell’ordine dei Frati Minori Osservanti, ma per tutta la sua breve vita continuò a fare il mestiere di scultore del legno, imparato nella bottega del padre e perfezionato nelle botteghe della capitale siciliana. Dedicò la sua vita alla preghiera, alla penitenza e al digiuno e all’arte così amata. Lo si pone a capo di una scuola di scultori che fiorì nei conventi francescani, e soprattutto tra quelli che produssero i crocifissi policromi. Tra loro il suo compaesano fra Innocenzo da Petralia, che portò la sua arte anche nell’Italia centrale e lasciò tracce anche nel convento aidonese. Opera sua sarebbe il magnifico casserizio conservato nella sacrestia di Sant’Anna.

Mi fermo qui con questi brevi cenni biografici su frate Umile, che vagava da un convento all’altro della Sicilia e della Calabria dove veniva richiesta la sua opera. Li realizzava in loco, in pochi giorni, dopo ore e ore passate in ginocchio nella preghiera e nella meditazione.

Ettore Capra coglie le suggestioni delle tante leggende fiorite intorno alla sua vita e alle sue opere e si concede la licenza poetica di farlo morire in Aidone, dove arriva stremato dalla febbre dovuta  alla tisi. Il nostro Crocifisso, così, sarebbe il frutto della sua ultima fatica e forse per questo il più prezioso. Avrete modo di constatare le grandi libertà che egli si è preso al limite dell’inverosimile. Ma tutto si concede all’autore che vuole suscitare nel suo letttore contemporaneamente meraviglia e compassione!

Sì, modestamente, noi aidonesi siamo stati sempre convinti fermamente del fatto che questo sia il più bello. Senza forse avere mai visto gli altri! Altrettanto immodestamente io, che abbraccio campanilisticamente questa tesi, avendone visto alcuni, mi permetto di ipotizzare che il Nostro può sembrare un’opera più matura rispetto agli altri, un’opera in cui lo scultore non ritiene più necessario puntare sull’enfasi del macrabro che caratterizza alcuni di essi, ma si concentra sulla gioia dell’opera compiuta dal Salvatore sulla terra. È fiorita la leggenda delle tre espressioni. Il volto di Cristo cambia espressione secondo la prospettiva da cui si guarda: esprimendo volta a volta il dolore dell’agonia, un sorriso rassicurante e la serenità di chi torna tra le braccia del padre!

LA LEGGENDA DEL CRISTO DI SANT’ANNA (Mistica)

LA LEGGENDA DEL CRISTO DI SANT'ANNA

Fin dal primo momento in cui fra Cherubino* era giunto nel convento dei Padri Osservanti di Aidone, posto al limitare del paese, al centro di un delizioso boschetto, la curiosità dei confratelli non accennava a spegnersi. Tutto in lui era misterioso: il suo arrivo in una buia notte, l’accoglienza del Padre Guardiano che gli aveva assegnato una cella dopo due lunghe ore di colloquio misterioso, la  sua riservatezza che non gli permetteva neppure di affacciare la testa fuori dalla sua cella. Le voci si rincorrevano, alcune erano inventate di sana pianta, altre attingevano a qualche parola sfuggita al Padre Guardiano che chiedeva comprensione e rispetto ai frati per la sofferenza di una persona che aveva sofferto come molti uomini che vivono nel mondo. Era dunque un mondano che aveva cercato rifugio alle delusioni e ai dolori in un tranquillo convento francescano? Era un principe nauseato delle nefandezze perpetrate e della dissolutezza in cui aveva vissuto? Era un cavaliere che aveva perso la donna amata? Si attendeva ansiosamente il giorno annunciato della sua vestizione, quando finalmente ogni curiosità avrebbe trovato soddisfazione. La cerimonia solenne della vestizione fu celebrata il giorno di Tutti i Santi. Cherubino entrò accompagnato, quasi preso per mano, dal Padre Guardiano, avanzò ad occhi bassi e si inginocchiò pregando come rapito in un’estasi. Era magrissimo, pallido, con l’espressione stanca e sofferente. Dopo la cerimonia tutta l’attenzione fu rivolta a lui nella speranza di sentire la sua storia dalla sua viva voce, ma a parlare fu solo il Padre Guardiano: del neo frate si vedevano solo le spalle scosse dai singhiozzi. Nelle sue parole il Padre accennava alle grandi sofferenze patite dal giovane e al bisogno che egli sentiva di lenirle con la preghiera e le opere pie. Poi annunciò che, essendo fra Cherubino un artista molto capace, da quel momento si sarebbe prodigato per arricchire la chiesa e il convento di opere d’arte, ma prima di tutto avrebbe scolpito in legno l’immagine di Gesù crocifisso destinato all’altare centrale. Dopo avere ricevuto l’abbraccio dei suoi confratelli, fra Cherubino fece ritorno nella sua cella e non ne uscì più. Raramente partecipava alle preghiere comuni e ogni volta sentiva su di sè gli sguardi di compatimento dei confratelli, che lo vedevano ogni volta sempre di più consumato dalla tisi.

LA LEGGENDA DEL CRISTO DI SANT'ANNA

Trascorreva le sue giornate tra le mura della sua celletta alternando la preghiera e la meditazione con l’opera del Crocifisso, concedendosi solo ogni tanto di affacciarsi dalla finestrella per ricevere la carezza dell’aria fresca sul viso, lo sguardo perso attraverso le fronde dei pini secolari ammirava i dolci colli che digradano verso la Piana di Catania, dominata della magnificenza dell’Etna. Erano quelli però anche i momenti in cui, libero dall’impegno, si lasciava aggredire dai fantasmi del passato e soprattutto da quello di lei, la giovane che lui aveva amato e poi abbandonata e che, non reggendo al dolore, aveva trovato la liberazione nel suicidio.

“Ma ne’ momenti in cui il ricordo di quello che egli chiamava il suo delitto veniva con maggiore veemenza a torturarlo, egli con più ardore si rivolgeva a quel Dio che l’aveva chiamato, a quel Dio che gli aveva toccato il cuore proprio davanti alla vittima.”

Allora con maggior vigore tornava al lavoro dimentico di qualunque altra cosa. Aveva ormai completato il corpo e non si decideva ad affrontare la testa, così comincio a colorarlo, le ginocchia scorticate e sanguinanti, i segni delle sferzate del flagello, il costato da cui era uscito acqua e sangue. Era diventato famoso per i Crocifissi policromi.

Ma “al momento di cominciare l’opera della testa, il frate fu vinto da un grande scoraggiamento: l’impresa di creare l’immagine del Redentore, del vero Figlio di Dio che moriva sereno e quasi sorridente su quella Croce, che doveva redimere l’umanità peccatrice, pareva ardua, eccelsa, superiore ad ogni talento umano.”

Gli schizzi si succedevano senza che lo soddisfacessero, le sue condizioni peggioravano sempre di più, allora fu vinto dallo scoramento e dal timore di non riuscire mai a completare quell’opera. Poi all’improvviso ebbe una illuminazione, pregò il Padre Guardiano che il Crocifisso fosse trasportato nel coro dove lui avrebbe avuto una luce migliore di quella della cella. Fu accontentato di buon grado e i frati per rispettare il suo lavoro andarono a pregare altrove. Cominciò a scolpire con rinnovato vigore ma il risultato era ancora lontano dalle sue aspettative. Si ritirava nella sua cella esausto e sempre più febbriccitante, scivolava in un sonno irrequieto. Spesso sognava che un Angelo prodigiosamente completava la sua opera, ma l’indomani la luce del giorno gli rivelava ogni volta il lavoro incompiuto. Una notte di freddo intenso fu svegliato dall’ululato del vento che entrava da tutti gli interstizi, negli occhi le ultime immagini del sogno ricorrente: l’Angelo lo guardava benevolo mostrandogli l’opera finita… si alzò e correndo raggiunse il coretto, prese lo scalpello deciso a dare gli ultimi tocchi alla testa. Alzò il velo che la copriva ma lo riabbassò disperato; cadde ginocchioni davanti al piccolo altare, San Francesco da un quadro posto alle sue spalle lo guardava benevolo: cominciò a pregare sempre più ardentemente.

“E pregava, pregava con l’anima su le labbra, implorando un raggio di luce divina che gli desse la potenza di creare l’mmagine vera dell’Uomo-Dio […] e nella sua fantasia malata si mescevano pazzamente come in un gran crOgiuolo il sibilo del vento, il rantolo orribile della porta, le immagini della Via Crucis e di San Francesco, e i ricordi della vita passata nel mondo […] e viva e palpitante, così come il suo genio creatore d’artista l’aveva concepita, la Testa del Redentore che spirava sereno sulla Croce, ne la sublime letizia della grandiosa opera compiuta…”

E allora il prodigio si avverò! La chiesa fu popolata all’improviso da un coro di Cherubini e ovunque era una musica e un profumo dolcissimo e una grande luce.

Quando frate Cherubino si svegliò da quel dolce torpore era l’alba. Il vento era cessato completamente, le prime incerte luci dell’alba illuminavano il paesello e le campagne dintorno coperti da uno spessa coltre candida. Cercò di alzarsi ma ormai le forze lo avevano abbandonato, ad ogni tentativo ricadeva, mentre il suo petto era squassato dalla tosse. Sentì la morte avvicinarsi e allora lo vinse il timore di lasciare la sua opera incompiuta. Con le ultime forze riuscì carponi ad avvicinarsi al Crocifisso e cominciò a scoprirlo dai piedi e poi risalendo su verso il corpo martoriato e contratto nello spasimo dell’agonia, reso mirabilmente. Infine scopri la testa abbozzata.

Mirabile prodigio: l’opera era compiuta!

“Essa rifletteva tutte le torture sofferte nella dolorosissima passione e ne appariva velata ma non sconvolta, perché un sorriso ineffabile, celestiale, divino errante sulle labbra violette e tra le palpebre socchiuse, la irradiava tutta. Era l’imagine dell’Uomo morto tra i più atroci spasimi, ma era pure la luce della grandezza e della bontà di Dio. Il Capolavoro era perfettamente compiuto! Con un urlo di gioia indicibile, il frate si sollevò in uno sforzo supremo, strettamente abbracciato al suo capolavoro: poi ricadde pesantemente con esso. Era morto.”

Quando i monaci entrarono nel coretto per recitare il mattutino lo trovarono morto stecchito, abbracciato al Crocifisso, e, pur piangendolo, si rallegrarono e ringraziarono Dio per avergli concesso di portare a compimento la sua opera!

* L'autore si concede di chiamarlo Fra Cherubino, forse per non confliggere con la verità storica di Frate Umile?

** Ho riassunto liberamente il testo di Ettore Capra scritto come gli altri nel 1905. In corsivo virgolettate le citazioni dall'originale. Il libro "Leggende Paesane", di Ettore Capra Cordova, fu pubblicato a Catania presso la Tipografia Giannotta nel 1906