O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. X

X

Giunto all'albergo, Ricobelli sostò dietro la bussola a vetri del ristorante, ch'era a pian- terreno.
«Perchè, pensava, cenare nella mia stanza. solo come un esiliato? L'esilio è dove manca la patria: e i siciliani briganti, saraceni, arabi, normanni... Vecchia storia! Chi parla di questa gente, fa sempre come il bottaio! La verità è che la Sicilia s'ha da indovinare », il che significa; amarla. Poichè l'amore solo trova la strada giusta. Ecco: qui ci vuole giustizia. Cominciamo, dunque, a uscire «da noi» e andiamo tra i siciliani... Lazare, veni foras! » Spinse la bussola con tanta violenza, che quasi urtò un tavolino all'ingresso, con grande meraviglia di due avventori, che stavano man- giando, tranquillamente. Domandò scuse. toccandosi il cappello e notò che il più vecchio dei due lo guardava con evidente simpatia.

- Chi è? chiese al cameriere che gli porgeva la lista, indicandolo con lo sguardo.

- Comel Non lo conosce? Ma quello è il prefetto!
-Accidenti!! il prefetto?! Scusate, ma confesso che, proprio, non lo conoscevo! - (e in cuor suo: se mi guarda così, certo mi conosce. Ed io non sono ancora andato a visitarlo... Però l'è minga mal, questo prefetto che mangia al ristorante!...)

Dopo la frutta, il capo cameriere venne a dirgli che il signor prefetto aveva manifestato
il desiderio di salutarlo.

- Bella macia!- pensò. - Così va bene! E bevuto l'ultimo vino che restava in fondo al suo bicchiere, fu davanti al prefetto.
Era, costui, Vittorio di Lavriano conte della Montà, parente di quel generale Morra che, nel '94, travolto il ministero Giolitti dagli scandali bancari e dall'estremismo trafficante, Francesco Crispi aveva nominato Commissario del Re per la Sicilia in istato d'assedio. Sessantenne, dalla faccia aperta, aveva baffi alla Wallenstein, modi e statura da lanciere antico.
- L'ho veduta «staseira », - gli disse, - che « montava pian pian per la straiola delle grotte: bastone an spala e occhi an cel... come tutti i poeti, quando portano il bastone... Conosco il suo passato e il suo carattere: perciò non volli disturbarla. Ma ora u son content ed vedla e di poterle stringere la mano. Io sono piemontese.
- Grazie, - rispose Ricobelli. - Ed io, da buon lombardo, stringo forte. Però... Che dire? sono un po' mortificato...

- Im racomando, niente scuse!
- Tuttavia, mi permetterà di venire a disturbarla...

- In prefettura? Ma c'as disturbo nen! Piuttosto, andiamo a far due passi.
Si alzò, lo prese a braccio come un vecchio amico e uscì con lui, mentre il cameriere porgeva premurosamente a Ricobelli il suo cencetto molle, che figurava benissimo un cappello.
A due passi, li seguì, come un'ombra, l'uomo che aveva cenato col prefetto: la sicurezza!

 

- Guardé, - concluse il conte, quando, a sera avanzata, si separarono. - La giustizia se n'è andata con Saturno. Resta in noi, come stimolo; ma, più di questo... gnente! Come a “realtà” è irraggiungibile.
- Pure, - insisteva Ricobelli, - il suo rito c'è: «la legge». E se lo son fatto gli uomini. Bella interpretazione! La forza!...
- Adagio, poeta! Con tute le intension ed conoscer l'essenza della giustizia, el fait a l'è che non possiamo disgiungere l'idea di vita da quella di egoismo, di lotta, di contrasto: il Diritto è una folla d'interessi; voci, ambizioni, stimoli: la lotta per la vita, insomma; o magari soltanto la lotta per impulso. Finchè durano queste cose, la legge ha da essere forza, non giustizia ideale. Per esser come la vorrebbe Lei, l'umanità dovrebbe aver toccata la perfezione, in ordine morale.
- Così, il concetto di giustizia si arresta a quello di «ordine». Siamo fermi ad Atene!!

- No, prego: noi stiamo fermi a Roma.
-Nella Roma di Cristo?

- Ah, per me, senza dubbio!
- Allora “sem d'accordo”.

Si strinsero la mano e via.
 

Il giorno appresso, Ricobelli decise di andare in galera, il che, nel suo modo d'intender la vita, voleva dire: all'ufficio.
- Qualunque cosa faccia - dicevasi- per essere quello che sono, debbo parere quello che non sono: e dunque, sotto. Provveditore? Andiamo a faa i mée studi, e chi non lavora è un lader
Però, se si fosse guardato allo specchio, con l'attenzione dovuta a un pezzo grosso pari suo, avrebbe visto un tal quale disordine di modi e di vestito, niente raccomandabile per destare quel senso di fastidio che si dice «rispetto al superiore» e fa il silenzio e le ragnatele nei corridoi e nei cuori di tutti gli uffici del mondo.
Si sarebbe visto, nonostante gli intenzionali mascheramenti, come era e come restava: cioè poeta. Cosa gravissima che gli avrebbe certo fiaccata la volontà difensiva con cui, come con una bussola, s'orientava soffrendo in mezzo al quotidiano ciarpame di uomini e di carte.
Ma, fortunatamente, una volta atteggiata la sua faccia così da incrudelirne i tratti della bontà nativa, non si vedeva più: e si credeva sinceramente l'altro, il Funzionario.
In tale stato di spirito giunse al Provveditorato.
Una folla di uscieri impiegati e maestri l'attendeva cianciando nel corridoio e lo accolse in un applauso. Si fermò, con atto sinceramente sdegnoso, saettando fuoco dagli occhi: questo non gli piaceva.

- Qui non siamo a teatro, signori! Grazie tante, ma ognuno torni al suo posto.
Fu una doccia: si fecero di lato e lo lasciarono passare, mortificati; tuttavia, lo seguirono fino nell'antisala del gabinetto.
...Se la prima scena è andata male, come andrà la seconda? si chiedevano tutti.
Gli avevano preparato un mazzo enorme di fiori, con nastro, cartoncino e calligrafica gia- culatoria, tutto pomposamente “sistemato” tra il collo e il ventre e le anse di un orribile vaso di argentone, piantato al centro dello scrittoio in corrispondenza precisa del Cristo appeso alla parete, tra i quadri scialbati dei alla Reali d'Italia.
- Guai! - si mise a strillare. - Non permetto assolutamente, intendiamoci bene! I fiori, alle canzonettiste. Via!
Il capo di gabinetto voleva rimediare:

- Veda, illustrissimo commendatore...
- Niente aggettivi, La prego: l'aggettivo è un cappio al collo; ed io, come San Paolo, sono « quello che sono »: nè illustre, nè... (ahimè! commendatore sì, perbacco: c'è il “motu proprio”, pensava durante la pausa; poi concluse)... nè altro, insomma. Piuttosto, aggiunse con voce più calma, andiamo a vedere i locali e a conoscere i colleghi. (Disse proprio: i colleghi!) Ma lei resti, per fa- vore; faccia portar via questi fiori.
E, liberatosi dell'eterno bastone e del cappello, uscì sul corridoio e si diresse alla prima porta che gli capitò di fronte.
Nessun rumore, aprendo: sensazione di buio, poi di freddo e di muffa, nel brusio di alcune voci di petto, tese come il rancore stesso.
Un vecchio, seduto dietro a un tavolo sbilenco, fuma la pipa e guarda il soffitto, senza parlare; attorno al tavolo, tre giovani stagliano controluce sul quadrato della finestra, e si lamentano dell'umiliazione patita senza colpa.
Ricobelli indugia ancora prima di entrare: ed è preso dal rimorso. Povera gente! Li ho trattati male... » Rivede in un lampo tutte le faccie dei poveri impiegati che se ne vanno la sera, dopo l'ufficio, scantonando come cani inseguiti, senz'altra meta che la propria casa, qui e là incontrando la satira dei pasquini ignoranti, o bruciandosi alla fiamma dell'odio che li circonda come una condanna senza giudizio, perduti per tutti come per se stessi.

Improvvisamente, il brusio cessa: ora l'hanno veduto e sgusciano fuori dalla stanza, per un pertugio nero sulla parete.
Il vecchio si leva in piedi, posando precipitosamente la pipa sopra il tavolo.
- Stia pur comodo! - gli disse Ricobelli, avvicinandosi. - Resti seduto, la prego. Lei... si chiama?
- Panicale, a servirla: caporeparto, sezione ricorsi... (e di nuovo si alzava).

- Fermo! Non si disturbi... E fumi pure, se vuole.
(Oh San Gennaro, pensa l'altro: ma dunque non è un orso. Certo, non ama i fiori.) La scoperta gli arrovescia sul mento un labbro enorme e bavoso.

- Siciliano?
- No... Veramente napoletano...
- Napoli! (esclama Ricobelli, perdendosi nella sua stratosfera di sogno. Ma dopo un po', la testa nuda del caposezione, che ha una coroncina di pelurie alla nuca e la faccia blesa, d'avorio, lo richiama alla realtà “burocratica”). - Ha molto arretrato, lei?

- L'arretrato c'è sempre... rispose Panicale; e si mise a ruminare la giustificazione.
Ma Ricobelli non l'udiva più: poichè, sfuggendogli un'altra volta la necessità del suo contegno «autorevole», s'era messo a guardare una pietra smagliante di cento riflessi, che era posata su alcune carte, a destra del calamaio, sopra la scrivania.
- E' un calcare di zolfo? domandò; e prese con curiosità, per meglio osservarla la da vicino.
- Sì, signor cavaliere... voglio dire, commendatore: è una marna zolfifera iridata. Vede? C'è scritto sotto, per non dimenticarlo, perchè io, in tutte le mie cose, sono molto ordinato (e mostrava, sotto la pietra, una striscia di carta, incollata). Qui, la chiamano trubo, sissignore: che è il segno dello zolfo, come l'arenazzolo e i briscali... Ricobelli pareva incantato: e Panicale ne approfittò per riaccendere la pipa. (- Giacchè me lo permette, mi piglio stu passaggio). Magnifica, davvero! concluse Rico- belli. E già posava la pietra, quando notò, al suo posto, lo stampo preciso che la polvere aveva disegnato sulla carta, quasi a bassorilievo. Accidenti! esclamò sorridendo. Questa sì che è una pratica antica!

Prese la carpetta, la battè sul tavolo per pulirla; poi, sul frontespizio, lesse queste parole:

e chill'amico sempre dorme
ROGNA

 

Panicale pareva turbato: ma sorrideva senza dire nulla.
- Che significa?
- Niente, commendatore: è una scemenza, scritta così, senza intenzione. Sa com'è? Qualche volta, per riposarsi, mentre si ha la penna in mano, si disegnano pupi, si fanno scarabocchi senza manco saperlo. Distrazione! Questa, poi... A Napoli, vede, un ostricaro ammazzò il compare e lo tenne tanto tempo nel barile che gli serviva per metterci sopra l'ostriche. Poi, quando bandizzava, diceva per concludere (ma a bassa voce!) «e chill'amico sempre dorme ».

- Strano! Stranissimo... E «rogna», il sottotitolo, fu scritto anche per distrazione?
Silenzio. Un usciere s'affaccia alla porta, subito ritraendosi.
Ricobelli apre la cartella.
C'è dentro un ricorso: sul margine del primo foglio, un punto esclamativo a matita rossa, quanto un girino; e, sotto, una pipetta in color viola. Tra le parole umilmente allineate come reclute, ogni tanto qualcuna fuori rango: giustizia... prepotenza... fame... In fondo, un nome: Marco D'Auria.
Poi l'etichette: insegnante.
(La condanna! - pensa Ricobelli. - Il fi glio di Dio, l'uomo, deformato dal sacco di pietra che lo copre, e mandato a girare tra milioni di sonnamboli, legati ognuno al suo «ufficio», come a una pelle di ferro!)

La sua faccia si oscurò: le sopracciglia, come due ali, chiusero il corpo di Panicale in un'ombra fittissima.
Posò la cartella; poi disse con voce profondamente severa:
- Favorisca portarmi in gabinetto l'incarto della « ROGNA ». E... sospenda ogni udienza, - aggiunse mentre usciva.

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