O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP V

CAP. V

Traslocato telegraficamente in Sardegna, sei giorni dopo il pretore dovette partire per Lanuséi: inutile ribellarsi; impossibile sapere il motivo della «punizione»: egli, dopo tutto, era un povero impiegato; e, se voleva far carriera, doveva ubbidire e tacere. Eppoi! Ribellarsi come? Chi lo avrebbe aiutato? A Roma non lo avrebbero fatto manco parlare: si ha forse il dovere di ascoltare un provinciale che non abbia almeno un deputato a portata di mano? E dunque: rassegnarsi e partire: nella vita di chi ha da lavorare per vivere, c'è sempre qualcuno che, a un certo momento, lo getta via come una calza rattoppata: a chi volete che serva una calza rattoppata? Bisogna avere il coraggio di sopportare d'esser trattato come un pacco, sul quale, ogni tanto, una mano distratta appiccica un cartellino, la per nuova destinazione. Forse, la «nuova destinazione» sarà davvero come dice la guida: « un luogo ameno »...

Prepara i tuoi bagagli... Légali... Non dimenticare di sigillarli bene, perchè (se ti raggiungeranno) prima di rivederli passerà un mese o due... Pazienza! Per i primi bisogni, c'è la tua valigetta. Ecco: qui le camicie, i colletti, lo spazzolino pei denti, le cravatte... (Ma i libri, tutti questi libri, dove li metti?) La valigia è imbottita: si chiude a stento. (E come si può amministrare la giustizia, senza còdice? Dicono che a Lanuséi la giustizia si amministri col fucile).

Sono rimasti fuori anche i fiori regalatigli da Agata: secchi, senza più profumo, stipati nello scatolo delle saponette. (Quando si ha davanti l'ignoto di una « nuova destinazione », i fiori secchi diventano ridicoli: bisogna difendersi dalla realtà, oramai. Eppoi, non c'è dove métterli…)

E tardi: é solamente l'una. Quante ore debbono passare, prima che arrivi il giorno? Quattro... Cinque... Poi, anche questa notte (i fanali della Costa risplendono vivamente, nonostante il vento vi pénetri e ne scuota le fiamme) ... anche questa notte se ne andrà. (Tu, dove andrai? Chi lo sa! Prima, passerò da casa: saluto la mamma... Le madri sono tutte le migliori donne: mio padre è ignorante, ma non dirà che la Sardegna è vicina. Per me è lo stesso: lontano, vicino... Che significa? Starò sempre all'albergo, o in una camera ammobiliata, solo come un cane. Poi mi abituerò alla conversazione del cancelliere. Lanuséi dev'essere un paese di caccia: bisogna diventar cacciatore... Perchè non posso dormire? Mi ricordo che, prima di conoscere Agata, mi piaceva passar le notti intere a studiare, dopo non lo so: se stavo sveglio, cominciavo a contare le stelle e a pensare a lei. Come sono ragazzo! Bisogna dormire... Domani...)
Domani è il tempo di tutti i desideri: lo si promette ai bambini, per farli star buoni e dormire: domani! Eppoi, domani diventa « oggi » e perde il suo splendore, diventa grigio, affannato, po- vero: e spesso non può mantenere le promesse. Allora i bambini piangono e gli uomini diventano più vecchi...

L'alba è piena di voli.
Il pretore è partito.

Nella casetta del Poggio, sul filo dei sogni, i bambini tessono il cielo che pare curvarsi malinconicamente da monte a monte, solo per questo povero forestiero che se ne va, scacciato senza colpa.
Al bivio del Mancuso aspettano don Marco e la signora Assunta, Teresa ed Agata: sono venute anche le cugine. Anna e Maria... Ma non sanno parlare d'altro che del freddo che pare voglia spezzare tutte le rame ténere.
Ecco la carrozza della posta. Si ferma dondolando, mentre il pretore ne discende, per salutare.

Agata si mette a piangere, tacitamente: e non c'è più nulla da dirsi, altro che le solite parole: sempre, mai...
La carrozza riparte: s'intravvede un momento sotto il piano di Rao e in mezzo agli aranci del Fondaccio; poi, passa davanti al cielo di Portella, scivola al pendio del Casino, e finalmente sbocca sul rettifilo di Poggio Rosso, s'allontana, diviene un punto, non si vede più.
E' inutile guardare: dove prima c'era la carrozza, ora c'è una linea bianca, una strada vuota, l'azzurro e un terribile freddo: si può capire una cosa simile?
Tutto è fermo e ingentilito come negli antichi quadri di santi dove le montagne e gli alberi sono orlati di un verde che a mano a mano schiarisce ed avanza nella luce: qualcosa si è spezzato nel cuore di una fanciulla e perciò le creature di Dio non sanno fare altro che sostare a guardarla, trattenendo il respiro.
Agata è in piedi, immobile sul ciglio della strada, con gli occhi a cercare ancora laggiù, nella lontananza, e le braccia inerti lungo i fianchi: ai suoi lati, nascendo ad angolo acuto dalla terra, si impenna verso l'alto il volo di due opposti stormi di rondini; dietro le sue spalle, raccolti in gruppo, stanno i parenti che la sostengono del loro affetto, senza parlare.
Non un rumore, non un suono cade nel gran silenzio di tutta la terra: le mandre che pascolano alla Ginestrella hanno i loro campanacci; quel falchetto, che pende ad ali dritte sulla valanga della Mulera, certo chiama i figli che aspettano nel nido aggrappato all'abisso: ma qui, non giunge alcuna voce: si vede, soltanto: e il colore d'ogni cosa pare derivi da quell’acqua che s'insinua oltre i contrafforti della Serra e si distende nel piano: l'acqua della Gurnalonga.

Senza dirselo, il vecchio e le donne si dispongono in fila, uno dietro l'altro, come se temessero di vedersi in faccia, e si tuffano in mezzo al grano maturo, per tornate alle case del Poggio. Sui loro corpi preme il peso delle spighe; intorno al loro sguardo di penitenti in processione, man mano che essi discendono, si stringe il cerchio dell'orizzonte, impassibile e chiaro.

*

Quando Trantulidda seppe « il fatto del trasloco », posò lo scarificatore (strumento a balestra e lancette, pei salassi ai malati di polmonite) e disse: « Ah sì? Ora, ti scarifico io, caro sindaco!» Poi, preso don Marco per mano, se lo trascinò a guardare dall'atrio di Tomaselli, a picco sul quartiere della Fontana.
- La vede quella casa nuova, che pare una colomba in mezzo alle altre? là, sul ciglio della Ciappa...
- La vedo. Oh, sia lodato Dio! Quella è di Pino Mangiamele, il «mericano»; ed è piena di dollari. Lui, non esce mai, perchè dice che si deve godere il suo«bordo», vale a dire il suo riposo. Ma la verità è che vuol essere cercato. Ora, dico io (e ne abbiamo parlato anche con Spampinato, che è d'accordo): perchè non lo portiamo capolista? Vossignoria che ne pensa?

Don Marco rispose ch'era il caso di mandarlo a chiamare e di parlargli, senza perdere tempo.
Dimodochè non passò mezz'ora che «il mericano » entrò nel salone, dondolandosi nel suo vestito nuovo, col colletto di celluloide, la catena d'oro al panciotto e le scarpe gialle, che cricchiavano ad ogni passo.
- Guddebai, bosso; come va l'allegria? - disse aprendo la vetrata; e sulla mano che aveva il colore della terracotta, gli splendeva un brillantone a taglio di topazio.
- Ringraziamo Iddio rispose don Filippo. Il padreterno mi fa ancora credito. E voi, pensate sempre all'America?
- Ah no! Mi làico Italy: mi laico mio contri (e siccome l'altro mostrava di non capire, spiegò): No tocche inglese? Io amo il mio paese, voglio dire.
- Ahà, benissimo! Ma che fate, per questo vostro paese?
- Ghiroppe! E quando morivo di fame, che fece lui per me? Ditelo voi: per comprarmi il ticchetto del barco, anche il barduino mi sono dovuto svendere, lo sapete. E dunque, ora mi voglio godere il mio bordo in santa pace, e chi crepa crepa.
- Malissimo! Allora che vale aver tirato «picco e sciabola» tanti anni alla giobba, come dite voi, se non siete capace di prendervi qualche soddisfazione? Dovete uscire fuori e diventare un pezzo grosso, lo capite?

- Airono!
- Airosì, invece! Vi vogliamo al Comune lo volete capire? Se accettate di stare con noi, vi portiamo capolista: vi conviene? Parole chiare.
Il «mericano» cominciava ad allungare il muso e pareva indeciso: sicchè don Filippo incalzò:

- Vi ricordate quando vi toccava tornare dal lavoro come un asino tirato per la coda? E prendétevi la rivincita, sangue d'un cane!
- Allo!
- «Orrait!» Fatemi la barba, che ci penso.
Successe un momento di silenzio solenne. Poi don Filippo prese il pennello e comincio a flagellare la faccia del futuro « capolista».

 

 

*

 

 

Fu così che, la sera del comizio, sul piano di San Domenico scoppiò la banda di Pino Mangiamele, coi clarinetti a cannello d'argento, bombardini e tromboni, tamburo, piatti e cassa e perfino il clarone che negli assolo pareva un bove infreddato.
Al primo schicchiriàre dei clarini, tutti i casigliani che abitavano intorno al piazzale si precipitarono a vedere; poi giunsero a frotte i «canivaganti» che bivaccavano nella Piazza o sulla via del Castello, e finalmente il famoso Trio (mandolino, chitarra cornuta e violoncello) nelle persone di Pepé il piccolo, Tano Giarrusso e il maestro Picció. I quali, insieme col gran chitarrista don Micenzo, si piantarono all'angolo della scarpata, come tanti giudici.
I poveri suonatori, che avevano cominciato bene, quando videro tutta questa gente, furono presi dal pànico: tuttavia, dopo una cascata di stecche e pigolii, si rifecero all'entrata dei piatti, che parve un rovescione di pietrame e terraglia.
- Bene, perbacco! - don Micenzo. E siccome quando diceva bene lui, in fatto di musica, non c'era chi gli potesse contrastare il campo, tutti batterono le mani.
Allora i bandisti presero fuoco e il maestro, levato l'indice in alto, li guidò alla terrazza che, dall'altro lato del piano, guardava sulla Ciappa, come se di là avesse voluto scaraventarli nel burrone. Ma lo scopo era un altro.
Infatti, al dilagare della strombettata, la casa del «mericano » brillò di gran luce: si vide qualcuno mettere fuori l'acetiléne, sventolare una bandiera.
Subito, tutta la contrada si accese di lumi esposti, palpitò di bandierine tal' e quale nel '60 per la liberazione di Palermo; e uno scampanare furioso cadde dalla torre saracena sul piano di Santa Maria. Qui stavano, seduti a ragionare sui gradini del sagrato, Gaspare Lachiana e Tariòlo: e, a quei rintocchi, sospesero la discussione. Ed ecco sopraggiungere il Grillo, il minuscolo giornataro che, quando non c'era da zappar caléstri o da mietere, faceva anche lui lo scaricatore, o li aiutava a trascinar tronchi d'alberi dalla campagna al paese. Era un ottimo amico della fame e del vino: infatti barbugliava, già ubriaco.
- Ne per l'uno, nè per l'altro! Sindaco o « mericano », chi beve non vota, ne per l'uno nè per l'altro! (E li abbracciava, serio serio).
A furia di passarselo di mano in mano come un vero grillaccio, capirono che a San Domenico c'era il comizio dei « mericani » e si sgrifonava a tinchité.
Allora Tariòlo, senza perdere tempo, lo prese per mano come un pupo e trascinandosi dietro anche l'altro compagnone, in quattro sgambate, dalla parte del Garraffo, s'arrampicò a San Domenico.
Il corridoio del convento era già pieno, gremito: amici o nemici, dissidenti o ammiratori, fraternizzavano davanti ai tavoli allineati lungo le pareti, tra i carratelli che Pino Mangiaméle aveva curato di riempire di vino, e che zampillavano rubino e profumo di viola.
- O Gaspare, Grillo, Tariòlo - gridò, come li vide, Tulìtulì lo stagnaro sbracciato a sbicchierare … - Questa è vena di Cristo: abbeveratevi!
Venti mani annasparono in alto, per cogliere il dono fiammante che spumeggiava sulle faccie in bollore: ma Tariòlo, che era il più alto di tutti, prese tranquillamente il bicchiere che gli offriva l'amico e in un soffio tracannò il vino.
Allora il Grillo, impermalito, gli si arrampicò come un insetto per le gambe, sul busto, fino alle spalle: e qui si sedette, comodamente.

- Viva il Grillo! - cominciarono a urlare dalla folla: e ognuno voleva toccarlo.
Il Grillo reagiva, digrignando i denti e graffiando a colpi d'unghia; finchè, avendo addentata una mano, e questa volendo liberarsi con uno strattone, fu trascinato in terra e non lo si vide più.
Se non lo pestarono, fu merito del corteo che giungeva in quel momento.
In testa, si capisce, c'era la banda; poi l'alfiere, i presidenti delle società operaie «Fratellanza» e «Lavoro», il capolista Pino Mangiaméle, Trantulidda, don Marco e poi la turba di zappatori, operai e castaldi.
Nel corridoio, dopo la distribuzione dei biscotti e delle fave abbrustolite, fu spisciolato l'ultimo barile. Poi si spalancò la porta dell'aula scolastica maggiore, già preparata, coi banchi spolverati, la bottiglia d'acqua sul tavolo e la salvietta sul bicchiere.
Come ognuno fu al suo posto e al brusio successe il silenzio dell'attesa, un elettore gridò: « Parli Spampinato »!
Alcune gole echeggiarono il nome, fra violenti applausi.
Spampinato uscì da un banco presso il balcone e sali sulla predella: era un gobbetto pallido, dalla testa enorme e gli occhi di fuoco. Cominciò a parlare, gonfiando le gote. Ma dopo due minuti capì che gli conveniva presentare Mangiaméle. Il quale, però, davanti a tanta gente, si afflosciò e a sua volta, premurosamente, cedette la parola a don Marco.
Il maestro era stanco: tuttavia dovette piegarsi alle insistenze. E allora avvenne in lui come se la vita, richiamata alle leggi della verità, si ritraesse all'origine del suono, che è il silenzio: gli mancò la voce: non vide più nulla; e dovettero sostenerlo mentre si abbatteva sulla sedia, in un sonno improvviso.

 

 

*

 


Il giorno dopo il sole spuntò sul ludo cartàceo, livido come il cuore dei politicanti. Verso le nove, era un intrecciarsi di notizie febbrili, di casa in casa:
- Cominciamo male! Il seggio provvisorio è del sindaco.
- E della minoranza? Chi c'è?
- Uno solo: Quartarone.
- Il bello è che presiede il pretore di Piazza che è nipote dell'onorevole...

Alle dieci, l'allarme crebbe: gli scherani di Ragni avevano cominciato a ficcar proditoriamente coltelli in tasca agli elettori avversari, ed ora avrebbero fatta una retata in massa: «i mericani», intanati, non volevano uscire di casa e perciò nell'aula non c'erano nemmeno quindici cani per fare il seggio definitivo. Ma verso mezzogiorno le sorti parvero mutare: quelli di Mangiaméle s'indrappellavano e in ordine chiuso, sudati e pallidi come se andassero alla forca, votavano compatti.
Spalledilegno, senz'altro, sguinzagliò le sue mute: i galoppini, agli ordini di Rusca, sbraciarono in false notizie, offrendo danaro, dove non poteva la menzogna o la paura, e ubriacando i dubitosi. Intanto, i quattro scrutatori del seggio definitivo facevano onorevole concessione di voto ai morti e agli emigrati; i funzionari di polizia, le guardie campestri, i prezzolati, invadevano le strade adiacenti alla sede elettorale, fingevano di non conoscere chi si recava a votare contro Ragni: provocavano disordini.
Alla fine, si capisce, rimasero eletti i candidati conservatori appoggiati dal sindaco Ragni e quelli di Pinuzzo non presero manco la minoranza.
A mezzanotte, il Maccabéo si affacciò dal balcone della casa comunale e proclamò i vincitori, che ringraziarono la folla acclamante. Poi ecco l'inno reale, la fiaccolata, il corteo.
Sopra ognuna delle porte « nemiche » fu inchiodato il limone della beffa.
E la fine della battaglia trovò le contrade seminate di ubbriachi malamente ruzzolati in mezzo alle concimaie che fumavano sotto la Costa, al Garraffo, al Calvario.

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