Lorenzo Pittà - RACCONTI

Il nonno, u massar' Lorenzo Pittà

LORENZO PITTA'. NOTA BIOGRAFICA - UN PICCOLO MONDO PAESANO

LORENZO PITTA': RACCONTI PAESANI

LORENZO PITTA'. TESTIMONE DELLA SCOPERTA DI MORGANTINA

QUI DI SEGUITO 6 RACCONTI: 

-  STORIA DI MARA. Protagonisti di questa novella sono Mara, una donna dolcissima e bella quanto "disgraziata", il suo amatissimo figliolo e il Balzo di San Nicola, uno dei luoghi più affascinantI, ma nel contempo inquietante e famigerato, di Aidone.

- IL PASTORE. Questa volta in una ambientazione idilliaca di civiltà pastorale. Sullo sfondo c’è sempre Aidone. Il pastore parte da un paesino etneo di quelli che si affacciano a mezzogiorno e puntano dritto verso le propaggini dei monti Erei...

- STORIA DI ISABELLA. E' la volta di una fiaba, un cunt', di quelli che le donne raccontavano ai bambini e si raccontavano tra di loro nei rari momenti di pausa tra un lavoro e l'altro, o attorno ad un braciere, nelle lunghe notti d'inverno mentre continuavano a sferruzzare perchè il tempo non scorresse invano. 

DON LULU' DI PIAZZA ARMERINA. Il racconto ha come protagonista una macchietta piazzese che ci fa pensare ad una bellissima poesia di Scibona,  ai mimi di Lanza e perchè no al famoso detto aidonese ad imitazione del galloitalico piazzese: "occì occì, o cciangh' a B'ddìa gghj-è n-an'mau f'rusg'..". 

- IL GALLO CANTO' INVANO. Un emozionante racconto autobiografico. Il cenone di Natale vissuto con la grande famiglia dei nonni ma con la tristezza per la sorellina lasciata a casa insieme alla mamma malata. 

- IL PAESE MERAVIGLIOSO. Un inno d'amore ad Aidone

Storia di Mara

Con Storia di Mara si conclude il ciclo dei racconti di Lorenzo Pittà che conosciamo dai ritagli di giornali che lui stesso aveva conservato e sui quali li aveva pubblicati, giornali del Nord Italia ma anche la testata regionale siciliana. Nella speranza che il nipote Vittorio Lingenti ne trovi altri inediti. Protagonisti di questa novella sono Mara, una donna dolcissima e bella quanto "disgraziata", il suo amatissimo figliolo, e il Balzo di San Nicola, uno dei luoghi più affascinante, ma nel contempo inquietante e famigerato, di Aidone. Ringrazio Giusto Oliveri per avermi regalato questa bellissima fotografia che anche a chi non conosce il posto può dare una perfetta idea della sua grandiosità.  

STORIA DI MARA

Farà un secolo questa storia, ma le donne di quel mio paese di Sicilia la racconteranno ancora. Racconteranno il piangere e il pregare santi e cristiani di Mara Varasino, quando le partì il figliuolo per la prima coscrizione obbligatoria. E il loro, sarà come il canto di ogni madre del mio paese.

Mara fu una popolana. La sua bellezza in gioventù l’aveva perduta, chè di lei si era invaghito un ricco signore, e adescandola l’aveva fatta sua, per poi abbandonarla. Ma da quell’amore essa aveva avuto una creaturina, e la giovane povera madre, scacciata dalla famiglia, non visse che per il suo figlioletto.

Questi crebbe bello e gentile. Aveva nel sangue la passione della musica, come tutti i Varasino. E i signori del paese, ancora giovanetto, se lo disputavano ai loro festini, chè mai si era visto un sì prodigioso suonatore di zufofo. Veramente anche il nonno Varesino era il più bravo organista dei paesi attorno al mio, ma il nipote era altro, nè si poteva dire che il nonno avesse insegnato qualche cosa al nipote: non si conoscevano nemmeno.

Così si viveva contenti in casa di Mara, e pareva ci fosse sempre festa, per via del figliolo che suonava a tutte le ore.

Ma un giorno ogni suono tacque da loro. Era venuto lo sbirro con una carta, dov’era scritto che Beppe sarebbe dovuto partire per una città, mille miglia lontana dal mio paese.

Oh, il piangere di Mara. La si vide andare da tutti i signori del paese, disfatta il viso e atterrita: non voleva che il figliolo partisse. PerChè doveva andare così lontano e per tanto tempo? E lei, come avrebbe fatto nella casa di San Giacomo tutta sola? E poi glielo avrebbero rubato, quel figliolo, le donne di città, che si era detto sempre fossero come le sirene. Fu vano bussare a tutte le porte. Nessuno potè aiutare Mara Varasino, nemmeno il barone, nè il sindaco o il parroco. E il figliolo le partì un mattino di giugno che le messi per la Piana sembravano un mare d’oro e pei colli sotto Aidone il vento le gonfiava come onde e correva, e Mongibello lontano aveva le ultime tracce di neve.

Quel mattino Mara si fece forza e ccompagnò il figlio con le altre donne per un tratto di strada. Erano in una decina i coscritti, e dovevano fare lo stesso cammino. Poi ci fu il commiato.

« Tu scrivimi ogni giorno» diceva Mara al figliolo.

« Sì, mamma, ogni giorno »

« E pensami ogni giorno »

« Si, mamma, ogni giorno »

« E vòltati a salutarmi, che io salirò a San Nicola e ti vedrò per la mulattiera di

San Bartolomeo, sinché sarai nella campagna di Caropepe».

« Sì, mamma, e mi sentirai, mamma, che io suonerò lo zufolo sinchè ti vedrò».

.Così mentre le altre madri se ne tornarono alle proprie case, Mara salì a San Nicola, che è il punto più alto del mio paese e ha sotto di sè una voragine profonda e tutte le campagne davanti il feudo di San Bartolomeo, all’orizzonte Mongibello e una striscia di mare.

Dalla cima di San Nicola, i coscritti si vedevano camminare in fondo alla vallata; Mara sventolò una bianca pezzuola e uno zufolo allietò la vallata. Ecco che il figliolo era pei campi della Piccola Santa* e poi a Pintura e poi al Lazzaretto, tutte contrade sottostanti. Lo zufolo si sentiva salire allegro fino alla cima del monte. Poi i coscritti si fecero più lontani: presero la mulattiera di San Bartolomeo e incominciarono a salirla. Ma ora le figure si erano impicciolite, lo zufolo si sentiva sempre meno e a Mara cominciava a morire il cuore. D’un tratto la bianca pezzuola cadde di mano a Mara: non si vedeva niù nessuno per il feudo di San Bartolomeo. Le campagne di Caropepe avevano inghiottito i coscritti.

« Beppe » . chiamava a gran voce Mara e piangeva. Ma ecco la voragine che era sotto di lei ripetere in un lamento «Beppe... ». Era l’eco di San Nicola. Tutto il giorno Mara sostò lì a piangere e a chiamare: tutto il giorno l’eco ripetè il suo lamento.

Passarono i primi mesi. Ogni mattina Mara aspettava le lettere del figliolo e ficcava in viso al postino i suoi grandi occhi. E il postino ora capiva che le lettere non potevano arrivare tutti i giorni, cambiava strada. Passarono ancora molti altri mesi. Mara di tanto in tanto andava dai signori del paese a farsi leggere e rileggere le lettere, e lì piangeva sempre. Poi il figliolo non scrisse più e Mara dal dolore incominciò a perdere il senno.

Nelle belle giornate la si vedeva in compagnia di una fanciullina andare a San Nicola ormai l’ombra di se stessa. Si sedeva in quello stesso posto da dove aveva visto per l’ultima volta il figliolo e lo chiamava a gran voce.

Quando il senno non la resse più, le sembrò che l’eco della sua voce altro non fosse che la voce del figliolo. E visse per l’eco, fino a che un giorno il senno e la nebbia non la tradirono.

Nessuna delle vicine potè dire com'era stato, perché nessuno quel giorno la vide uscire. Tutta sola Mara se n’era andata a San Nicola e per un altro sentiero e su un altro posto si era seduta, un posto dove l’eco non poteva ripetere la sua voce. Invano tante volte Mara gridò il nome del figliolo: dalla voragine saliva solo la nebbia; ma l’eco, o l’eco non rispondeva, doveva essere morta, morta come il suo figliolo.

Fu allora che la madre, smaniando disperata, fece un passo sopra la voragine. Lorenzo Pittà

Corriere del Giorno - domenica 14 gennaio 1973 / La Prealpina venerdì 19 gennaio 1973

* bellissima traduzione del nome della contrada A Santitta

 

Il Pastore

Siamo alla quinta novella di Pittà. Questa volta in una ambientazione idilliaca di civiltà pastorale. Sullo sfondo c’è sempre Aidone. Il pastore parte da un paesino etneo di quelli che si affacciano a mezzogiorno e puntano dritto verso le propaggini dei monti Erei. Mi fa pensare a Bronte, Biancavilla Adrano, Paternò, e a tutti gli altri piccoli paesi, che con le loro luci illuminano il panorama delle serene notti aidonesi, e da cui provengono famiglie aidonesi discendenti di quei contadini ed allevatori attratti dalle feraci contrade ben visibili a mezzogiorno subito oltre la Piana di Catania. L’eco di queste immigrazioni è ancora in molti soprannomi aidonesi come u bruntis’, u paturnis’. Instancabili lavoratori che, come i firris’ provenienti dalle brulle terre di Ferla, presto diventarono i padroni degli stessi aidonesi che si sono sempre contraddistinti per una mancanza cronica di ambizione, abituati com’erano e sono ad accontentarsi del poco ma sicuro.

Il pastore

«Rimani - gli diceva la sua donna - Sei vecchio e presto ti peseranno quattro ventine d’anni. Non ti piace più la nostra casa? Eppure ci venimmo appena sposi, una sera come questa, una sera di febbraio che Mongibello pareva più bianco e le piante e la buona terra si andavano risvegliando. Hai dimenticato quel tempo?»

La donna stava seduta sul sedile dell’orto della casa di don Calogero, accanto a lui, e questi era il suo uomo. Era una casa di un paesino alle falde dell’Etna: una stalla, la cucina e sopra due stanze con balconi che guardavano a mezzogiorno, verso la piana, altre contrade, ove risaltava il biancore dei paesi, qua e là situati.

Don Calogero e la sua donna erano tanto ricchi; ma amavano starsene in questa loro casetta. Da qui l'uomo era partito in quella primavera di allora con due paia di vacche, due muli, un centinaio di pecore e aveva preso la mulattiera per altre contrade.

«Verrò che avrai partorito» aveva detto alla sua donna quella prima volta, mentre la stringeva al petto fuori del paese, chè lei lo aveva voluto accompagnare per un tratto. E siccome le pecore già brucavano nei campi di orzo, l’uomo era corso per rimetterle sul sentiero lasciandola che piangeva. Quando ebbe finite di riordinarle era un po’ lontano; la salutò ancora con un cenno della mano e poi andò col sogno di far masseria.

Don Calogero era nato fortunato. Quell’inverno mise in proprio masseria a tanto cammino dal paese, in uno di quei feudi lontani che si vedevano dal balcone di casa sua. Cominciò col prendere a pascolo parte di quelle terre: fu un cattivo affare; ma come giunse il tempo di pagare preferì andare da un usuraio piuttosto che mancare alla parola data. Quando la cosa giunse all’orecchio della Duchessa, questa, ammirata, volle dargli il feudo in gabella e gli anticipò pure le sementi e gli animali. Così l’uomo si ebbe per otto anni trecento salme di buona terra e un affare d’oro.

Alto, biondo, asciutto da allora cominciò a badare alle sue cose dall'alba alla notte; ora per gli ovili e le stalle, ora pei campi; quando c’era gelo, quando il sole accecava. E donna Mara ne fu l’ombra. Esile e gentile la moglie lo seguì presto infatti, appena diede il figliolo alla luce e don Calogero venne a prenderla che dalle sue parti faceva freddo e la neve era alta.

« Giù è primavera » le disse solamente, quando nel lasciare il paese, furono allo stesso posto in cui la donna piangente lo aveva visto partire alcuni mesi prima. E le indicava, nel mattino sereno, il posto dove poi si sarebbero fermati tutta la vita, lavorando infaticabilmente. Ma già allo scadere degli otto anni don Calogero possedeva pecore a migliaia, buoi a centinaia, muli e cavalli a diecine e grano a non finire. Lo circondò gente la più diversa: ladri e derubati, poveri e ricchi; ma egli seppe restare buono.

Solo quando il figliuolo si fu sposato ed ebbero comprato quelle belle tenute della Duchessa e i loro armenti si muovevano pel feudo come l’ombra di grandi nuvole pei prati; solo allora don Calogero lasciò le redini del comando e se ne venne con la moglie in paese tra la povera gente, generoso e sensibile sempre don Calogero.

Ma di tanto in tanto gli veniva la nostalgia del feudo e degli armenti. Allora prendeva il cavallo e partiva e la moglie come quella prima volta lo accompagnava sin fuori del paese. E ogni volta vedendoli passare, le quattro povere case abitate da pastori e da contadini, pareva raccontassero una leggenda, chè lassù si viveva del frutto degli armenti e di castagne. Erano case che aprivano le porte stanche di lottare con la sventura, inesorabile a bussare; erano uomini il cui passato sapeva tutto di lavoro, di stenti, di miseria: cose e uomini nati per vivere un destino segnato. Solo la casa di don Calogero aveva sfidato questa comune sorte e aveva vinto; solo don Calogero contava da quelle parti; don Calogero padrone di armenti e di masserie.

«Rimani - continuava a dirle nella sera la sua donna - Il viaggio è lungo e arriverai stanco. Sei anche un po’ malato e io non posso accompagnarti sin fuori del paese. Sono vecchia anch’io!»

Ma don Calogero aveva già deciso e il mattino partì ugualmente. «Torna presto» gli raccomandava la sua vecchietta, dopo che si furono salutati e don Calogero l’aveva baciata che era alla porta di casa. Ma l’uomo non poteva sentire. Pastori e contadini si erano affacciati a salutarlo e mandare saluti già alla masseria, perchè molti dei figlioli lavoravano al feudo. E don Calogero s’incamminò. Voleva sentirsi ancora tra le sue cose, quelle per le quali era vissuto; trovarsi fra il tenero verde, l’aria dei campi, il belato delle pecore! Aveva fatto quella strada con la neve, di primavera, d’estate: la conosceva bene. Sapeva quali erano i campi migliori, i frutteti più belli. Presto sentì intenerirsi ai tanti ricordi che andavano narrandogli la sua vita e si chiuse in essi, mentre il cavallo lo portava di contrada in contrada. Quando al tramonto fu sui monti di Giardinelli, il sole moriva dietro Aidone; il vecchio volle fermarsi per riposare e guardare la sua masseria, là, sù di un monte, visibile come un puntino sopra la piana. Aveva la vista buona don Calogero, ma per la prima volta il lungo andare a cavallo lo stancava. Dovette ancora camminare tutta la notte sinché giunse al feudo sterminato e nudo. S’era già fatta l’alba. Lontana ecco l’Etna, tutta bianca di neve e quelle falde ove adolescente era andato pascolando le prime dieci pecore e sognato armenti e masserie al suono dello zufolo.

Rimase al feudo. A donna Mara mandava a dire di non preoccuparsi che stava bene. E in quei mesi pareva gli fosse tornata veramente la vigoria degli anni giovanili. I pastori del feudo lo avevano visto ammirati seguire le greggi; guardare su di un colle fermo da cavallo i contadini intenti a lavorare; vigilare negli ovili.

Ma un mattino di maggio lo trovarono che non si potè alzare dal letto. Diceva di avere una febbriciattola, smaniava, dava ordini e si assopiva presto. Il giorno dopo però era lucido di mente ed essendo di buona fibra, col levarsi del sole gli erano pure tornate le forze. Allora chiamò a sè il figliolo e volle che su di una sedia lo mettesse al balcone che dava dentro la corte della masseria. E comandò che in questa si facessero entrare quanti più animali si poteva. Entrarono cosi i buoi più belli, le pecore più lanute e i pastori e le loro donne che piangenti coi bimbi in braccio guardavano il loro padrone, le spalle appoggiate alle porte.

Il sole batteva ai vetri del balcone. Don Calogero stetta ad ammirate il fiore dei suoi armenti; parve anche avesse un ultimo saluto per la sua gente, ma tornò ad assopirsi. Verso mezzogiorno balzò dalla sedia e afferrato il figliolo con la destra si sostenne al spalla di lui. Con un ampio sguardo dominò il mare di verde sottostante, il verde dei suoi prati. E fu per l’ultima volta. Poi la morte se lo prese ed egli si accasciò con un sorriso: laggiù di fronte il grosso degli armenti andava in lunga fila ad abbeverarsi al fiume e a lui veniva il suono dei suoi dei campanacci.

LORENZO PITTA' – pubblicato su “La Sicilia” del Lunedì 28 maggio 1951

Storia di Isabella

       E' la volta di una fiaba, un cunt', di quelli che le donne raccontavano ai bambini e si raccontavano tra di loro nei rari momenti di pausa tra un lavoro e l'altro, o attorno ad un braciere, nelle lunghe notti d'inverno mentre continuavano a sferruzzare perchè il tempo non scorresse invano. Protagonisti due giovani innamorati e il castello di Aidone. Una magnifica descrizione del luogo, quel Balcone di Sicilia da cui l'occhio vaga a perdita d'occhio dalla catena degli Erei, al Mongibello, al mare tra Catania e Augusta e a destra Caltagirone...

SFERRUZZANDO RACCONTAVANO LA STORIA DI ISABELLA - DA MILLE ANNI AL PLENILUNIO PIANGE SULLA TORRE DI LEVANTE

Fu la scorsa primavera. Io avevo attraversato le povere viuzze del paese, quelle del suo più antico quartiere. Ecco, mi dicevo, queste sono le prime casupole. Sorsero presso il Castello; poi attorno ad esse venne formandosi il paese. Ero in un paese vecchio di secoli, appollaiato sulle pendici di un monte e in cima al monte i ruderi di un Castello. Mi sedetti su questi ruderi e stetti a guardare. Guardavo la piana che in quella primavera era un mare di verde e Mongibello immenso e nevoso e tutt’intorno i monti di Enna, di Agira di Troina; guardavo il Gornalunga che andava a morire lontano nell’orizzonte; e Palagonia, Grammichele, Caltagirone. Dal monte una dolce e amica distesa di poggi, colline, campagne pianeggianti e all’orizzonte una striscia di mare. Poi sotto i ruderi del Castello vennero le donne che avevano messo i panni ad asciugare sull’erba. Raccontavano, e facevano la calza. Raccontavano i casi d’Isabella e Federico.

     Da mille anni Federico cavalcava per la piana nelle notti di plenilunio; da mille anni l’anima d'isabella non ha pace. Si aggira per il Castello colei che fu la più bella delle castellane. Anche l’altro plenilunio stava sulla torre di levante. Piangeva e tendeva le mani verso la piana pallida di luna. Lontano un cavaliere cavalcava. «E’ Isabella - dice la gente quando vede il biancore sulla torre di levante - è Isabella che aspetta Federico. Povera Isabella aspetterà sempre».

Era giovane e gentile Isabella, e così bella che mai ve ne fu l’eguale. In questo ine- spugnabile Castello, quand’essa compì diciotto anni, il padre, signore della contrada, volle dare una grande festa. Mai, come quella volta, tanti duchi e conti e baroni alla festa del Castello. I cantastorie per ogni contrada della Sicilia avevano cantato la bellezza d’Isabella e la fama s’era fatta grande. I cavalieri arsero d’amore per la fanciulla e alla giostra tutti si batterono per lei. A vincere fu Federico, ed gli ebbe il sorriso d’Isabella. Era notte alta e il Castello sonava di canti e balli. «Io t’amo», aveva detto Federico a Isabella, intrecciando la danza. Ma Isabella, che era gentile, non aveva risposto. Così per ogni contrada i cantastorie incominciarono a cantare l’amore di Federico. E la nuova si sparse per ogni dove e giunse presto al Castello di Albaspina, che abitava laggiù, in fondo alla valle, sopra il Gornalunga; di Albaspina che invano aveva amato Federico. E quando Isabella mandò per le vicine dimore, affinché a lei venisse una indovina che sapesse leggere nelle stelle, Albaspina mandò la sua vecchia fidata fantesca come la piu brava delle indovine. «Tu dimmi - disse Isabella alla fantesca - dimmi di Federico e dell’amor mio». E la fantesca, come leggesse nelle stelle, disse quello che Albaspina le aveva comandato di dire. «Oh Isabella, solo quando Federico ti darà il suo cuore tu potrai amarlo, solo quando ti darà il suo cuore!». E Isabella era una bambina che credeva nelle stelle.  Invano Federico ogni plenilunio cavalcava per la piana e giunto al Castello le diceva dell’amor suo. Voleva il suo cuore, Isabella. Solo allora lo avrebbe amato.

Ora avvenne che, in uno di questi pleniluni Federico, tornando dal Castello, cadesse in una misteriosa imboscata e con lui i prodi della sua scorta. Solo lo scudiero non perdette la vita, e fu questi che raccolse le ultime parole di Federico. «Tu vai da Isabella quand’io sarò morto. Quand’io sarò morto prendi il mio cuore e portaglielo». Poi Federico reclinò il capo e s’abbattè e lo scudiero gli prese il cuore e cavalcò nella notte verso il Castello d’Isabella. Essa non dormiva e venne agli spalti. «Eccoti — disse lo scudiero, mostrandoglielo — eccoti il cuore di Federico». Allora si vide Isabella farsi più bianca della luna, stendere le braccia verso la piana e poi sfracellarsi nel fossato. Era morta la più bella delle castellane. Morendo si dannò per aver creduto nelle stelle, si dannò per aver perduto Federico. Per questo l’anima di Isabella da mille anni non ha pace e ogni plenilunio piange sulla torre di levante. Mai piu tornerà a lei il cavaliere che cavalca nella piana.

LORENZO PITTA’ - pubblicato su La Sicilia (Quotidiano Liberale) mercoledì 19 dicembre 1951

Don Lulù di Piazza Armerina

Siamo al terzo racconto di Lorenzo Pittà. Il racconto ha come protagonista una macchietta piazzese che ci fa pensare ad una bellissima poesia di Scibona,  ai mimi di Lanza e perchè no al famoso detto aidonese ad imitazione del galloitalico piazzese: "occì occì, o cciangh' a B'ddìa gghj-è n-an'mau f'rusg'..". In questo testo c'è il giovane Lorenzo che molti hanno ricordato come una persona brillante e salace! Il racconto è Don Lulu di Piazza Armerina

DON LULU' DI PIAZZA ARMERINA  - UOMINI E COSE DI TANTI ANNI FA

È gran tempo che abitanti di Piazza Armerina vissero questa impresa per via di que tale don Lulù oramai passato alla storia civica. Era amante della selvaggina, don Lulù, e ricco di fantasia, sicché le sue avventure di caccia rimanevano memorabili. Una domenica pomeriggio, dopo avere convinto la moglie che usciva per certi affari, dritto s’era infilato nell’osteria vicino a Santo Stefano dove uno stanzino era riservato a una stretta cerchia di amici che la domenica non amavano passeggiare per la strade principale del paese. Uno della comitiva che era stato ai bei tempi in Argentina, inserviente presso un professorone, quand'era alticcio non mancava di parlare di animali preistorici, i cui scheletri aveva visto spolverare al museo di Buenos Aires. E gli altri stavano ad ascoltarlo a bocca aperta.

«Vi dico» insisteva quel pomeriggio, «che avevano code lunghe metri e metri, e bocche spaventose. Il professore diceva che sono pochi quelli che hanno la fortuna di imbattersi in essi, chè noi ignoranti anche se ce li troviamo fra i piedi non li vediamo».

Quella notte, quando Don Lulù traballante tornava a casa, se qualcuno gli avesse chiesto da che parte sarebbe spuntato il sole, avrebbe risposto «di lì», indicando a casaccio la direzio ne della Cattedrale o quella dei Canali.

Alle due, la moglie già in piedi non sapeva più a che Santo rivolgersi per tirarlo dal letto: don Lulù doveva essere all’alba in campagna per dare la semente ai mezzadri. E quando, come Dio volle, donna Filomena riusci a farlo montare sull’asino bianco, piu che raccomandarsi al suo uomo si raccomandò alla bestia, che per lei era sempre stata più giudiziosa del padrone.

Stava don Lulù come un sacco di patate messo sul basto e non s'accorgeva della strada che l’asino andava accorciando. Ad un certo punto però l’asino s’impuntò spaventato e buttò di sella il padrone, il quale prese a guardarsi attorno. Era sempre notte alta.

«Dove sarò?», si disse don Lulù tastandosi. In cielo c’erano solo le stelle, essendo luna nuova. Tutt’intorno la terra arata dava il suo profumo forte e buono.

Era alla Balata, don Lulù. Ma che mai si muoveva su quel piano grande? Che mai di così insolito che pareva non avesse gambe (eppure poco fa l’aveva visto camminare), e non avesse bocca (eppure respirava forte), e tanti occhi aveva, sì, tanti occhi?

Un animale dai molti occhi doveva esserci stato in antico: ne aveva sentito parlare all'argentino.

«Accorrete, accorrete», si mise a gridare ai contadini che andavano per i fatti loro. «Ci vuole aiuto, ci vuole aiuto giù alla Balata. Vada uno di voi in paese e dia di botto alla campana di San Pietro».

Qundo si capì che era don Lulù, il più intrepido, che arrivava allora allora, voltate le briglie, corse a spronbattuto verso il paese.

«Ah! Un mostro preistorico!» diceva frattanto don Lulù ai contadini, tutti aspettavano aiuto, di qua dalla Balata chè il piano non si vedeva, essendoci di mezzo un colle.

Di lì a non molto si vide avanzare per la mulattiera una fitta schiera di uomini armati di bastoni e pali, preceduti da quel nunzio a cavallo.

Don Lulù lì mise sull'avviso: «Dovete stare motto attenti, perchè v'è da catturare vivo un coso mai visto». Zitti, zitti presero le accorciatoie tra i noccioleti, andarono su per i colli che in cerchio chiudono il grande piano, scesero a gruppetti e si disposero tutt’intorno alla Balata.

Da lontano videro «quel coso» che aveva veramente tanti occhi. E c'era tanto silenzio quando alla Balata risonò allegra una risata e uno disse: «Ma venite, venite, o Ciaccesi, è il treno che s’è fermato. s’è fermato il treno».

Don Lulù non ricordava più che in quei giorni, dalle sue parti, era cominciato a funzionare la linea ferrata, e voleva prendere vivo il treno. Questa fu certo la sua caccia più grossa. LORENZO PITTA' 

*pubblicato su “La Sicilia” - Cronaca di Enna di giovedì 4 gennaio 1951

La foto ritrae l'arrivo del treno alla stazione di Piazza Armerina, non potevo trovare di meglio! Spero che non me ne voglia l'amico Gaetano Masuzzo se l'ho presa dal suo sito Cronologia di Piazza Armerina, senza avergliene chiesto il permesso. http://cronarmerina.blogspot.com/2013/06/a-bedda-ferrovia-2-parte.html

Il gallo cantò invano

ECCO IL SECONDO RACCONTO. E' un testo che mi ha emozionato moltissimo, lo rilascio senza commenti perchè credo che spettino a ciascun lettore. Ringrazio ancora una volta Vittorio Lingenti,che fin da l'inizio, due anni fa mi ha coinvolto nell'apertura e valorizzazione di quella casa ereditata dalla mamma, che anche il suo papà aveva voluto lasciare intatta, facendo solo quei lavori di consolidamento che hanno permesso che si conservasse. Vittorio, insieme all'associazione Custodi della Terra, ne ha fatto una casa museo, A Casa du Masser, che ci permette di vedere come si viveva fino alla metà del Novecento nella casa di una famiglia di agiati contadini (con il termine masser, massaio, in Aidone si indicava infatti il piccolo proprietario terriero che viveva del suo lavoro, aiutato spesso da braccianti ma anche da serve di casa). Nel momento in cui Vittorio ha cominciato a fare ordine tra le carte dello zio certo non si aspettava che molti dei ritagli di giornale conservati gelosamente erano racconti o articoli di vario argomento scritti dallo stesso Lorenzo Pitta e pubblicati in giornali dell'epoca, quotidiani del nord Italia ma anche nelle pagine culturali della Sicilia. Alla meraviglia e alla voglia di condividerli subito con me (nè Vittorio nè suo padre hanno mai dimenticato i lunghi pomeriggi estivi in cui aiutavo un adolescente studente a recuperare greco e latino!) è subentrata la commozione e poi l'emozione mista a pudore con cui abbiamo continuato insieme a "frugare" fra quelle carte scoprendo un personaggio molto diverso da quell'uomo mite e quasi timido che io avevo nei miei ricordi di ragazzina.

Il gallo cantò invano*

Nelle sere di capodanno il babbo ed io andavamo dal nonno che abitava dall’altra parte di quel mio paese di Sicilia. Allora è tempo che non si lavora tanto. La terra seminata pare aspetti quietamente che il seme dia alla luce i germogli, e anche gli uomini sembra stiano in attesa: è una religiosa attesa di uomini e cose.

Il nonno aveva avuto molti figlioli ed erano tutti in vita: allora. Le ricorderò sempre quelle sere, così liete e rumorose per i tanti parenti che si davano riunione. A casa mia venivano invece poche persone e i visi più noti erano di quelli che badavano alla casa e a fare il pane per la campagna. Mia madre era sempre ammalata e forse alla gente non piaceva sentire come soffriva: me ne è rimasto il segno nell’anima. Così i vicini e i parenti per lo più ci venivano di tanto in tanto e per convenienza.

Ma dal nonno si era così allegri invece. Mio padre per l’occasione mi metteva sotto un largo mantello dopo che mia madre mi aveva imbottito di lana. Poi fuori nella strada, anche se il vento, in quel quartiere che è il più alto del paese, pareva ci dovesse far volare. Ricordo che era così forte che se veniva di dietro noi si correva, senza muovere passo, portati da quelle ventate.

Io mi tenevo alla giacca del babbo che con ambedue le mani doveva badare al vento, acché non gli portasse per aria il mantello, come accadde una volta. Sembrava un uccellaccio nero che volasse a testa di uomo, quel mantello. Ma fu per poco; e noi che scoperti si era rimasti ridendo a vederlo volare poi corremmo a prenderlo, mentre stava per cadere nelle pozzanghere.

Mia madre quelle sere che uscivamo temeva sempre per la mia salute, e nella sue voce c’era come una preghiera perché desistessimo dall’uscire. Ma io dietro i vetri soffrivo al pensiero di starmene a casa, mentre fuor nella strada gli altri bambini andavano rincorrendosi gioiosi.

Era l’ora che si accendevano i lumi, qua e là per le finestre e i balconi della metà del mio paese, situata sulla pendice di levante. Casa mia stava in alto, sul dorso del monte. Dietro aveva l’altra metà del paese che non si vedeva, essendoci di mezzo la casa dello zio.

Dal nonno noi ci arrivavamo sempre gli ultimi. Il babbo non sapeva se dispiacere alla mamma o a me. Poi essi cedevano ai miei occhi, che dovevano essere tanto supplici.

Com’era bello dal nonno! Si faceva un gran, cerchio attorno al braciere e si rideva per un nonnulla. Un cerchio di zii e zie e cugini della mia età e cuginette grandette, e il nonno che a quelle risate non sapeva che pesci prendere, egli che era così imponente nell’aspetto da mettere soggezione quando batteva il suo bastone a mò di ciambellano.

Ricordo che le cuginette quando ridevano riversavano all’indietro la gola e tutto il giovane busto e non la finivano più. Chiostre di denti bellissimi e bianche gole e risate squillanti, come argento, e su tutte quella di Teresa, la povera cugina troppo presto morta. Il nonno era un vecchio alto dalla barba bianca, così lindo che a me sapeva di buon profumo. Aveva gli occhi piccoli e furbi, le ciglie cespose, la bocca pìccola. Il suo viso avrebbe fatto la gioia di un pittore che ne avesse avuto bisogno per un patriarca.

Ma il chiasso più forte era quello di noi piccoli. Finiva che il nonno perdeva la pazienza, e quando si alzava a rimproverarci, noi scappavamo fuori nel cortile e andavamo a nasconderci nella cantina. Questa era buia, con due enormi botti che la occupavano per metà. Che altro ci fosse là dentro non ricordo. Il pollalo che era nel sottoscala del cortile, accanto alla cantina, è rimasto in invece nella mia memoria, tra i ricordi di infanzia più vivi. Credevo che le galline russassero, mentre il gallo stesse all’erta a vegliare e che potessero anche sognare. Ci perdevo delle ore in queste fantasticherie ! Le bestie pendevano da certi grossi fili di ferro disposti a mò di piuoli di una scala, il loro buffo respiro proprio delle galline e lo spavento che le prendeva quando noi entravamo gridando nel loro regno, non vi so più dire.

Ma ora che ci ripenso il ricordo del pollaio è legato al canto del gallo, perché il nonno diceva che se il gallo cantava pari sarebbe stato bel tempo, se dispari cattivo tempo; e questo vale sempre molto per la campagna. Né era mai successo che il gallo lo avesse tradito.

A quel primo canto, ricordi Maria? Ogni voce taceva, ogni risata si troncava a metà, si tratteneva perfino il respiro. Il gallo aveva la più bella delle voci: cantava, quasi sapesse che noi stavamo a sentirlo, con consumata maestria. Pareva anzi volesse ogni notte dare saggio delle sue possibilità canore, modulando un grande arco di note limpide e compiute. Al suo chicchirichì rispondeva nella notte fonda altro gallo ed altro ancora. Pareva si dessero la voce chissà per quale intesa! ,

Il nonno, quando il gallo finiva di cantare si alzava ed era come se ci desse la buona notte. Quante volte pregai perché potessi rimanere a fargli compagnia. Sarei potuto cadere ammalato e per questo non mi accontentarono mai.

Ma quella lontana notte del 4 gennaio, io finalmente ci potei rimanere. Ero andato verso sera a portargli il pranzo, e lo trovai nel suo grande letto col viso disfatto. Mi disse che si sentiva male, ma mi raccomandò di non farne parola con alcuno, perché tutti gli zìi ci avevano qualcuno ammalato in casa, in quei giorni. Mia madre, come seppe del nonno, per quella notte mi mandò da lui. Mio padre invece era in campagna e quando venne fu la prima volta che lo vidi piangere: il nonno spirò il giorno dopo.

Quella notte che ci rimasi non disse parola. Apriva gli occhi a guardarmi e li richiu-deva subito. Aveva le sue belle e bianche mani fuori dalle coperte e ne vedevo battere le vene azzurrine. Io guardavo per quella stanza, dalla semplicità francescana, il San Giuseppe del capezzale, i grandi stivali neri del nonno, la cassapanca dove erano chiuse le belle monetine che ci regalava nelle feste, ma dove si diceva che c’erano anche state quelle grosse che erano servite a comperare le belle terre di Lazzaretto, guardavo il lettino ove dormiva la nonna quand’era in vita.

Poi dall’orologio della vicina piazza sonarono tanti tocchi e il gallo cominciò a cantare. « Nonno - dissi - non senti? E’ il gallo che canta. Domani sarà bel tempo, sarà bel tempo domani ». Ma il nonno non aprì gli occhi e quella notte il gallo cantò invanoLorenzo Pittà

* Pubblicato il 30 gennaio 1965 sul Corriere della Valtellina nella rubrica Il racconto della settimana

 

Il paese meraviglioso

In questa pagina raccolgo racconti, ricordi e testimonianze dell'avvocato/professore Lorenzo Pittà,una persona schiva e gentile  che visse gran parte della sua vita in Aidone, in quella casa che si affaccia sullo stupendo panorama che dalle propaggini occidentali degli Erei digrada verso la Piana di Catania, dominata dall'Etna maestosa, e che nei giorni più chiari lascia intravedere la marina catanese. Devo al nipote Vittorio Lingenti prima l'avermi permesso di leggere questi preziosi testi e poi di poterli pubblicare in questo mio sito. L'avvocato Lingenti con grande amore ha aperto ai visitatori la casa dei nonni rimasta tale e quale era negli anni cinquanta, facendone un piccolo museo  "A casa du masser".  La stessa dove ha vissuto tutta la sua vita Lorenzo Pittà, che gode dalla facciata est il panorama descritto ed ha quella sud coperta dalla mole della ex Chiesa di San Vincenzo Ferreri, dalla caratteristica facciata a punta di diamante, che i paesani chiamano san Domenico.  Invito i miei lettori ad immergersi in quelle atmosfere rese magiche dal perdurare della nebbia e ammirando quei contadini che l'autore compatisce in modo affettuoso. A questi link è possibile visitare la pagina Facebook d' A casa du masser  e  le foto illustrative. 

IL PAESE MERAVIGLIOSO

Se penso al mio paese di Sicilia è dalla Piana di Catania che ci arrivo, e in piena primavera, chè solo allora è tutto verde per quelle distese di campi. E già mi vedo sulla stradale che da Catania va verso l'interno, nell'Ovest. L'Etna, ancora bianca di neve, giganteggia sopra gli agrumeti di Paternò, per un lungo tratto mi sta alla destra e la sua cima tocca il cielo. È la Montagna: così la chiamano quelli della città. Che importa se appena esci da Catania questa terra ferace è tutta una meraviglia di filari di viti, di ulivi, di mandorli, di aranci? Più in là, nella Piana, è latifondo, terra nuda, ove d'estate il verde è un'oasi e le mulattiere polverose sono le vie maestre e l'acqua si va a prendere con le brocche a dorso di mulo e costa ore di cammino.

Dal latifondo io cerco d'indovinare il mio paese fra le lontane cime dei monti Erei. E presto so bene distinguerlo il monte, che a mo' di sella si staglia sopra gli altri e sul quale si adagia l'abitato. Le sue case, le viuzze, le piazze, gli orti, le chiese, il Castellaccio a San Nicola, gli abitanti? Sembra che tutto si sia fermato nei secoli e che uomini e cose stiano immoti a guardare. Pure anche questo è un mondo, dove si nasce vive muore, anche se pare non ci siano passate guerre o pestilenze e tutto vada come fuori del tempo odierno. Io ad esempio vi nacqui in una casa che sta sul dorso del monte e guarda a levante l'infinito, e oltre la strada ha un orto e un cipresso, e a lato una chiesa, ora non più tale, se ci sono appena i muri maestri e a primavera, per i mille buchi della fabbrica, è solo regno di passeri cinguettanti.

Dalla mia casa imparai presto a conoscere questo mondo. II primo ricordo è di quando veniva la neve e io bambino la vedevo cadere, da dietro i vetri, sui tetti delle case sottostanti e negli orti. Ricordo che tesseva bianchi arabeschi ai rami del cipresso e quando c'era vento mulinando si addossava all'angolo della via. Rare volte in quella mia infanzia vidi un bianco lenzuolo da Enna ad Agirà, da Raddusa a Castel ludica, da Ramacca a Caltagirone: solo Mongibello per metà dell'anno era sempre immensamente candido, lì a sinistra guardando. Ma a me bambino tutto pareva candore sotto la neve. Doveva essere perchè era tanto attesa su quelle case di gesso, sporcate dall'incuria dell'uomo, indifferenti all'indifferenza del tempo, su quelle viuzze misere assai. Poi, come per una sua millennaria monotonia il verde primaverile dei feudi si avvicendava allo squallore dei mesi in cui i campi cadevano inerti avendo dato le bionde messi, all’autunno denudate, al primo inverno dalle brune arate distese. Solo l’Etna, quel tempo, poteva per me godere a lungo la gioia di un candido manto, essere diversamente bella.

Ora, se penso alla mia infanzia, è tutto che sa di meraviglioso per quel mio paese, anche il mondo che mi si spalancava dai balconi di casa. Ricordo che al sorgere del sole, nelle serene giornate di primavera, i colli della Piana disegnavano nitidissime le loro sagome le loro ombre sembravano giungere fin sotto il paese. Poi si levavano qua e là per l’ampia aperta distesa nebbioline che parevano vaganti nuvole di incenso e che sostavano a lungo nella conca del feudo Calvino.

“Mamma – chiedevo da dietro i vetri – come si chiama quel posto e lì dov’è?” Vallate, colline e campagne e ognuna un nome. E come la mamma rispondeva, chissà perché, io seguivo il nastro dello stradale che bianco si snodava a perdita d’occhio a lato del serpeggiante corso del Gornalunga. Ma era quando l’accompagnavo a san Nicola*, che è il punto più alto del mio paese e ha sotto di sé una voragine profonda e tutte le campagne, che la mamma me le indicava una a una. Ecco da San Nicola il feudo del Bosco, di San Bartolomeo, del Tufo, la Tenuta di Prato, Castel di Gresti, Mendola. Stanno di là dalla riva sinistra del Gornalunga. E il feudo del Baccarato, di Toscano, di Fargione, Crunici, Casal Gismondo, Malaricotta, lì a destra voltando le spalle al mio paese. Avanti, a specchio, quelli di Feudonuovo, Poggiorosso, Belmontino superiore e inferiore, Calvino, Spedalotto, Cugno e le campagne di Colla, San Leonardo, Commenda, Scalidi, del Travo, di Giresi. Migliaia d ettari con appena qualche masseria qua e là e presso il paese le casette dei piccoli appezzamenti; feudi e feudi, dove si va a lavorare a dorso di mule, scendendovi di notte e salendone che è giorno per stradine impervie o per mulattiere. Bambino le nebbiose sere d’inverno amavo sentire questo passo ferrato di animali, mentre si si spegneva lontano sull’acciotolato delle viuzze. E fin d’allora mi prendeva tanta una pena di uomini e di animali e mi pareva fossero dannati in eterno, se non c’era vento e pioggia che li tenesse in casa. Ma ora che ci penso per la gente del mio paese questo lavorare è come una religione, religione di primitivi impastoiata alle radici di un ancora attuale feudalesimo, a un passato dove hanno solo regnato falsi cristi, baroni e briganti, re di uomini senza volto. È vero: per quegli sterminati latifondi gli uomini vanno ancora dietro all’aratro a chiodo e nelle urne depongono un voto di cui non hanno pesato la portata e non conoscono che da secoli altra gente ha conquistato quasi tutto. Pure anche loro sono uomini che nascono vivono prolificano muoiono in un mondo in divenire , un mondo che così com’è ha una sua ragion d’essere: porta nuova linfa, appena mette il capo fuori dall’uscio, inconsciamente assetato com’è. Così le case del mio paese povere di pane, sono sempre piene di figlioli: pare si beffino delle teorie sulla nascita, come i ricchi si beffano dei poveri. Da poco questi figlioli hanno ricominciato ad abbandonare la loro terra. Lo credereste? Molti non si voltano più a guardare indietro.

Ma da primavera ad autunno inoltrato questo mio paese vive ai balconi, alle finestre, nelle vie, per gli orti e per i campi la sua dura vita. Nell’inverno la nebbia, salendo dalle valli, lo isola dal mondo circostante per intere settimane e quando ridiscende, alle improvvise schiarite, solo i cocuzzoli sottostanti al monte dov’è posto l’abitato emergono appena dal mare di nuvole. LORENZO PITTA’

* Pittà usa San Nicola per indicare il piano del Castellaccio, che è il punto più alto di Aidone; oggi con questo toponimo si intende invece la zona del Balzo di san Nicola, lo sperone di roccia che si affaccia nel vuoto per molte decine di metri, la zona in epoca medievale frequentata da eremiti che vivevano nelle grotte. 

(Pubblicato il 29 novembre 1964 su “La Prealpina” , un quotidiano che, con alterne vicende aveva cominciato il suo percorso nel 1888 avendo come area di riferimento le regioni alpine del Piemonte e della Lombardia.)