O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. VI

CAPITOLO VI

La mattina del Corpus Domini, don Marco incontrò a scuola il messo comunale che l'aspettava appoggiato allo stipite del portone, e, mentre egli passava, gli consegnò qualcosa di giallo e si allontanò portandosi la mano alla fronte, per salutarlo.
Era una busta suggellata dal caratteristico timbro ovale, particolarmente usato dal sindaco: l'aprì, avendo la sensazione di tenere in mano una vipera, e subito una parola terribile gli fece male agli occhi: «sospeso». Poi potè leggere anche una menzogna: «per deliberazione del Consiglio».
Li per lì, gli venne da ridere e tossì, come faceva quando voleva schiarirsi la voce; mise la lettera in tasca; la riprese dopo fatti alcuni passi: nello stesso tempo vide passargli accanto l'ombra di Laspina, che si dirigeva verso il fondo del corridoio, dove era la sua scolaresca: udì che gli alunni, alcuni dei più buoni, eran venuti a salutarlo; e allora non resse più allo sgomento, rispose ai saluti dei fanciulli più col gesto che con la voce, raccomandò di star buoni in classe, chè egli andava in congedo per un certo tempo, e poi sarebbe tornato. E mentre la campanina di mastro Gisé suonava l'ultimo tocco, e una fiumana di scolaretti si ingorgava dal portone nel corridoio, uscì all'aperto e si mise a camminare come un cane sperso, senza sapere dove andava.
Tutta la mattinata gli passò così, vagando dal Castellaccio al Calvario, da Sant'Anna alla Silva: finchè si ridusse alla chiesa della Provvidenza; e qui, sedutosi sul ciglio della trazzera che scende verso il Pantano come un'unghiata tra le barbe degli alberi, restò lungamente senza memoria, ora guardando il cielo, vuoto sino all'infinito, ora un cipresso verdenero, ora un polledro che pascolava oltre il roveto.
Intanto, dall'orologio lontano, le ore tonfavano come bacche sull'erba; e l'erba odorava di amaro; e tutto, nella canicola gialla, era lento ed opaco.
Finchè, all'una dopo mezzogiorno, dal piano di San Domenico, si levò un vocerìo festoso, come se tutti gli uccelli della contrada fossero convenuti lassù, e cantassero.
Oh, i suoi scolaretti! Uscivano, tornavano già a casa: grembiuli, brachette, manine sporche d'inchiostro: li vedeva, li vede.
Nulla più è opaco sulla terra: ci sono i fanciulli: Dio c'è sempre: le spighe sono vicine a maturare. Coraggio! Bisogna alzarsi, camminare, giungere in tempo in campagna, per non spaventare la fa-
miglia; e soprattutto, bisogna tacere.
Così giunse al Poggio, in casa sua, fingendosi allegro e riuscì a non tradirsi anche nei giorni di poi, tanto che potè ricorrere in prefettura, senza bisogno di svelarsi con alcuno. Intanto, pensava, anche se non mi fanno giustizia subito, le scuole si chiudono, vengono le vacanze: c'è tempo. Stringeva i denti e gli veniva da ridere: e questa era una cosa strana, che non la capiva e, in fondo in fondo, gli dispiaceva: perchè gli pareva di non poterla spiegare altrimenti, se non come una mezza smorfia che non significava nè rabbia nè sdegno. Che poteva essere, dunque? Ah, se non avesse avuto i figli! Tutto si sarebbe immediatamente chiarito. Ma c'erano i figli: ed ecco che le cose più semplici diventavano oscure.
La signora Assunta, a fine mese, gli domandò se aveva preso lo stipendio: e siccome la domanda, con tanti pensieri che gli bruciavano in testa, egli non l'aveva preveduta, sulle prime lo stordì.
- Il mandato è alla firma. - disse poi - Avevo dimenticato di dirtelo. C'è da pagare la farina, lo sai.

- Pregherò il mulinaro d'aspettare: è questione di giorni.

Ma i giorni passarono, e dalla prefettura non rispondevano. Il vecchio cominciò a sbigottirsi.

*

Ora, la terra è un forno che arde; e se cade una goccia d'acqua, l'aria le si move intorno come una vampa; i mattaioni si spaccano sotto le ventate, e lasciano vedere le radici degli alberi; i muli, gli asini, i giumenti, con le orecchie calate sugli occhi, cercano i fossi dove c'è l'ombra e il sonno, e restano là fermi, senza respiro, sicchè non c'è bisogno di impastoiarli o di legarli con la corda a una pietra.

È luglio.
I bimbi dei contadini, nudi come gamberi, si cuociono al sole; gli uccelli hanno sete: e Agata si consuma perchè Morelli, dopo aver mandata una cartolina col panorama di Lanusei e un'altra con un grande saluto tra due mufloni in corsa, non ha scritto più un rigo.
Don Marco è inquieto. Da un po' di tempo non riesce a sorridere: fuma, insacca il mento sul petto, non parla. La signora Assunta li scruta tutti e due: Agata, Dio l'aiuti! Ma lui, che cosa le na- sconde?
Guarda il cielo, povera donna: «Non sarai malato, spero!» «Malato? E quando mai! Sono più sano d'un pesce ».
(Mentre suonava l'Avemaria, sul monte, è caduta una foglia, qui, tra le rame. La signora Assunta si fa il segno della croce e vorrebbe diventare come l'erba, che non sa nulla).

- Perchè non parli? Si tratta di Morelli? Hai pena per Agata?
- Morelli è un ragazzaccio: se non le scrive è segno che non l'ama più: e allora è meglio che non scriva.
Silenziol Ci sono le ragazze.

Scendevano, infatti, dal viottolo dietro la casa le due sorelle, teneramente abbracciate alla vita: e Teresa, bruna come una zingara, offriva in appoggio tutta la sua grazia vigorosa alla tristezza di Agata, che pareva più bianca sotto le trecce nere annodate sul petto. Tornavano, come ogni giorno, dall'attesa estenuante del procaccia postale, lassù, allo stradone sotto il piano di Rao.
- Niente?- domandò la signora Assunta.
Teresa scosse la testa.
E rientrarono, chiusero la porta, sedettero per la cena. Letizia e i due fratellini avevano posata la testa sopra la tavola apparecchiata e dormivano come tre passeri: Teresa ed Agata li prendono sulle braccia e li portano sul letto, adagio adagio: poi siedono davanti ai piatti ancora vuoti, mentre la signora Assunta comincia a scodellare e don Marco apre la finestra.

La luna viene sulla tavola.

Verso la metà del mese, don Marco tornò più tardi del solito. Era pallido, ma pareva allegro come se avesse preso il terno. Il sindaco si era degnato di comunicargli premurosamente che la Prefettura aveva accolto il suo ricorso, ma che il Consiglio si opponeva a reintegrarlo nel posto.
- Che fai, al paese, ora che non c'è scuola?

- Trantulidda è messo in testa che ho la barba a garofano e deve tirarmi i peli incarnati, ad uno ad uno... Figurati! Tra una menzogna pietosa, e andar su e giù inutilmente e poi mangiare, dormire, attendere e sperare, venne anche agosto e lo trovò in piedi.
Il corpo gli doleva, di insonnia; ma come il sole si alzò, gli parve di sentir cantare gli alberi e le pietre. Invece, era la campana dell'Annunziata, che svegliava tutte le altre le quali risposero da un versante all'altro della collina, dondolandosi insieme sulla voce profonda del campanone della Matrice. - Già San Lorenzo! sospirò il vecchio, pensando al tempo, che passava senza portargli la pace
- Comincia la Decina, disse la signora Assunta, venendo sullo spiazzo, mentre finiva di agganciarsi il corpetto.
- Agata ha dormito?
- Dice di si, lei: ma io l'ho udita tutta la notte, sveglia.
- Almeno lo dimenticasse! Come vuoi che lo dimentichi, se tu ti ostini a restare qui? Ormai, non ci siamo che noi in campagna. Si capisce che il pensiero le vada sempre a una cosa.
Al solito, a don Marco vien da ridere e stringe i denti: la smorfia ch'egli non sa capire: la moglie seguita a parlare e dice che se vuol restare «restiamo »: però... Però che cosa? Non ha voluto dirglielo prima, per non spaventarlo: certo è che Agata, da una settimana, ha la febbre... (Il vecchio le prende un braccio e lo stringe). Sì... una cosa da nulla... ma costante: poche linee e un sudore freddo, ogni sera. Non è malaria. Qui, la malaria chi ce la porta?
Eh, gia! La malaria è laggiù, dove il fiume è disseccato ed ora la terra ha sete e si scopre dalla nebbia: scopre le collinette rotonde e dolci, come mammelle, macchiate dalle bruciature del debbio e del maggese.

- Dunque, bisogna andarsene. Oggi stesso!-

Cosi nel pomeriggio, appena calò un poco di frescura, furono abballinate le materassa, sistemati i cofani della terraglia e tante altre piccole cose utili; poi, quando il sole cominciò a rosseggiare. Pricone se le caricò sulla groppa e, come Dio volle, si misero in cammino.
 

Giunto alla casa paesana e liberato del carico, Pricone voleva maravigliarsi del cortile e dell'acacia piantatavi proprio in mezzo: ma già lo trascinavano nella stalla e un gran buio gli cadde sulla testa.
Dopo un pezzo si sdraiò per terra e vide che il buio se n'era andato ed invece era venuto un gatto.
Il quale gli disse: «Tu hai un brutto odore: ma non fa niente: ognuno ha l'odore che ha. La casa del tuo padrone è fatta in questo modo: prima c'è il cortile con l'albero (che tu sai); poi questa brutta stalla e più in là la casa dei porcellini d'India e di quella terribile donna che una volta mi ruppe una gamba (i porcellini sono squisiti). Accanto, c'è la scala di pietra e di qui si giunge nella sala, dove so un buco nel muro, pieno di stracci e di lumi vecchi: di fronte, c'è un'altra scala, ma è di tavole e quando si va « sopra », vicino alla casa dei sorci, nei tettimorti o nelle stanze delle tue padroncine, si sente un grande baccano. Di sotto, conosco anche il camerone col sedile rosso e i ciotoli in fila, tra le penne del pavone... Poi (e questo è difficile a capire!) c'è una gran trappola, che, quando l'aprono, vi saltano dentro tanti grilli e fanno un brutto frastuono. Si dice: il cembalo. C'è anche la stanza del sonno e quella del mangiare, con la cassa della farina (ora è vuota); poi la stanza dell'orto con la finestra. L'orto è l'erba. Più in là, dopo muro, ce n'è un altro: e il padrone di quest'orto ha le mani pelose
«Quello che mi voleva gettare nel fiume!» pensa Pricone: e sbruffa.
Il gatto se ne va, senza salutare. In verità, chi volesse sapere, si tratta di una casa ordinata, pulita e tranquilla che il sole scalda, prima da levante, attraverso le rame di un'acacia, e poi coricandosi sopra il piccolo giardino pensile, dov'è un'aiuola a squadra con la sua brava salciata, il bersò di gelsomino, due mezze giare per seminarci il rampicante che salga ai lati della finestra e poi la salvia e l'erba celidonia, la cedronella, il fiore di pazienza, il rosmarino e la menta. Di là da un muro divisorio, c'è il giardinetto di don Berto, piantato a oleandri, i quali sono amari come il tossico.
Questo risuonar di cassa armonica che stiamo udendo adesso significa che le due sorelle, Agata e Teresa, stanno salendo per la scala di legno incassata tra i muri, a rassettare le loro stanzette. Teresa è piena di bei pensieri e di visioni liete, perchè torna alla sua casa dopo una lunga assenza; se non fosse per la sorella che è triste, vorrebbe cantare come quelle tessitrici, laggiù, che battono il telaio, accompagnandosi con la voce. Si contenta di spalancare il balcone sull'orto e di sporgersi a respirare l'aria profumata di miele che affiora in un brivido di gioia sulle pareti.
- Non ti sporgere tanto! le grida dall'orto il padre, che sta richiamando le campanelle del vilucchio sui fili di ferro tesi al muro, tra chiodo e chiodo. (Bisogna sapere che al balcone manca la ringhiera). Teresa rientra, si annoda un fazzoletto sui capelli e comincia a spolverare.
- Tu- dice alla sorella, - è meglio che scenda ad aiutare la mamma.

Agata e la signora Assunta, così, hanno appena tempo di rifare il letto con la biancheria di bucato, che già suona l'Avemaria della sera e l'angelo viene a benedire i guanciali. Acceso il lume e apparecchiata la tavola all'aperto, che si voleva cenare nell'orto, cominciarono a giungere le visite dei vicini che volevano bene alla signora Assunta e al padrone e a tutta la famiglia, insomma. Primo, il Cianciolo che era il metatiere del Ferrante: poi la Cucca, Rosa Vignapersa, Palma (quella dei porcellini d'India) e la Pula, vecchia vecchia e seguita sempre da un cane che fiutava i mattoni e scodinzolava basso. Bevevano il bicchiere dell'ospite, poi si sedevano in cerchio, con le mani intrecciate sullo stomaco e stavano riguardosi, parlando dei tempi che erano scarsi e beato chi ha il suo, o piove o nevica. Cianciolo domandò anche notizie della causa del Ferrante, dicendo che «patto vince legge»; che quest'anno l'oliva prunara ha la rogna, ma la giarraffa tiene. Però, ci vuole la grassura. E don Marco rispose che se ne sarebbe parlato poi, più tardi. Ci fu chi trovò che Agata era patita e chi, finalmente, li informò che era «dittaggio » di tutti, in paese, che don Marco non avrebbe più «fatto scuola».

- Favole! - esclamò il maestro, sorridendo.
Ma, quando furono soli, disse la verità: che era stato sospeso, fin dai primi di giugno: che aveva reclamato in prefettura, a Caltanissetta. dove era andato quando aveva fatto credere d'aver da fare a Piazza; che il Prefetto voleva reintegrarlo e il Sindaco si opponeva con altre calunnie, ribattute dalla pubblica «petizione »; e che ora aspettava da due mesi, tanto che aveva pronta un'altra istanza al provveditore, e l'avrebbe mandata, senz'allarmare la famiglia, se quella santa cristiana della Vigna- persa avesse taciuto.
- Fammela leggere - disse la signora Assunta, che pareva d'un tratto risecchita come sul punto di morire.

pagg. 105 - 118