O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. VII

CAP. VII

L'istanza diceva così:

                                                                 Erbita, 30 luglio, 1899.

« Ill.mo Sig. Provveditore ed Onorevoli Componenti il Consiglio Scolastico di
                                                                                              CALTANISSETTA.

« Il sottoscritto D'Auria Marco, insegnante nominato a vita ed esercente da 35 anni nelle pubbliche scuole di Erbita, fa seguito al reclamo presentato all'On. Sig. Prefetto, per chiarire alle S.S. L.L. Ill.me quanto segue:

« Come prova l'unita citazione, il sindaco di Erbita è in lite civile con lo scrivente, per certa pretesa restituzione di fondo, detto «Oliveto Ferrante».
« Riusciti vani i tentativi di bonario accomodamento, da più di un anno egli tenta di colpire il sottoscritto nell'impiego di maestro, sperando che, toltogli il pane di bocca, gli abbia a cedere il fondo.
« Ultimamente, dopo avere consigliato un certo Rusca (suo galoppino) a querelarsi senza motivi contro l'esponente, il sindaco ha provocato in Consiglio la sospensione dello scrivente dalle funzioni scolastiche.
« Il sottoscritto, nel suo reclamo all'Ill.mo signor Prefetto, oppose (e qui ripete) che, dalle accuse contestategli in detta querela, fu pienamente assolto dal pretore (oggi traslocato in Sardegna!) e che in base a tale assoluzione dovevasi reintegrarlo nel posto, ai sensi dell'articolo 186 del Regolamento in vigore.
«Così dispose, infatti, in accoglimento, I'Ill.mo signor Prefetto; senonchè, son passati due lunghi mesi di angoscie e il sindaco (anche perchè vuol nominare un suo nipote al posto dello scrivente) non ha voluto rimettere in ufficio l'infelice sottoscritto, ma ha «rapportato» al signor Prefetto:
« 1° - che la reintegrazione D'Auria offenderebbe la morale, perchè (a suo dire) la sentenza assolutoria è col «non luogo a procedere per non provata reità ».
« 2°- che gli abitanti di Erbita sarebbero contrari.
« 3° - che, se reintegrato D'Auria, egli, sindaco, e la Giunta si dimetterebbero. Dal che è chiara la personalità e la prepotenza in opera, per manomettere la legge e opprimere un innocente.
« Infatti:
« L'articolo 186 del Regolamento Scolastico in vigore, dispone che: « un maestro può essere sospeso, quando contro di lui vi sia mandato di cattura (e per il sottoscritto non vi fu, non vi è, nè, se Dio vuole, vi sarà mai mandato di cattura). Dunque, la di lui sospensione fu arbitraria.
Lo stesso articolo 186 dispone che: un maestro sia inabilitato al servizio fino a quando il mandato di cattura sia revocato o la sentenza sia di non farsi luogo a procedere». E basta.
«Non dice, nè che il maestro non è inabilitato, se la sentenza sia col « non luogo» per mancanza di reato, nè che sia inabilitato, se la sentenza pronunci il « non luogo » per non provata reità.
« Dunque, lo vuole « nei suoi pieni diritti »: non inabilitato, reintegrato e soddisfatto degli arretrati, contentandosi, per questo, della Assoluzione in genere ». Conseguentemente riconosce la sua piena moralità.
«Ora, siccome il sottoscritto fu assolto « per non aver commesso il fatto », cioè fu dichiarato innocente, egli non solo non è, nè può essere inabilitato, ma viene ricollocato automaticamente nella sua incontrastata onorabilità e quindi (per i diritti acquisiti in trentacinque anni d'insegnamento, per la sua nomina a vita e per la sua assoluta moralità) dev'essere per giustizia rimesso in servizio, ai sensi della cennata disposizione di legge. E veniamo al resto.
«La pretesa avversione del pubblico di Erbita a che il sottoscritto sia reintegrato, è più delle altre calunniosa: ed a smentirla basta la petizione presentata all'Ill.mo signor Prefetto, a firma di centinaia di buoni cittadini che chiedono la restituzione in servizio del loro vecchio maestro, indignatissimi della prepotenza che, insieme con la famiglia, lo fa languire nella quasi inedia.
«Le minacciate dimissioni, poi, provano la personalità odiosa esercitata dal sindaco verso il sottoscritto. D'altronde, per nessuna cosa al mondo egli si dimetterebbe, essendo certo che non potrebbe nè saprebbe vivere senza “sindacatura".

«Concludendo: legge, morale, popolo, diritti acquisiti, nomina a vita e grave condizione economica di un vecchio insegnante, messo arbitrariamente sul lastrico, domandano giustizia.
«Si è perciò che il sottoscritto, saldo in coscienza per non aver mai offeso sacrosanti doveri e i sani principi di morale, con le lacrime agli occhi, nel vedersi contendere ingiustamente la scuola, che fu ed è il suo più forte ideale; nel vedersi privato del pane per i figli; prega vivamente tutti gli Onorevoli Signori Componenti il Consiglio Scolastico, affinchè, ai sensi di legge, di vera giustizia e di umanità, vogliano deliberare che il sottoscritto sia tosto reintegrato nel suo posto posto e gli vengano pagati gli arretrati, come di competenza.

«Tanto spera.
il dev.mo
D'AURìA MARCO, Insegnante ».

P.S. Siccome il sindaco sa che la legge assiste lo scrivente, cercherà di ritardare ancora la reintegrazione, sperando che il sottoscritto, ridotto a vera miseria, abbia a cadere per disperazione e compromettersi veracemente: perciò egli non eseguirà assolutamente qualsiasi ordine gli verrà dato.
«Lo scrivente supplica dunque, acciò (appena l'On. Consiglio avrà deliberata la reintegrazione) voglia l'Ill.mo Signor Presidente ordinare al Sottoprefetto che mandi un Funzionario qui, in Erbita, per insediare nel posto l'esponente e fargli pagare gli arretrati di legge.
Ciò che, con esito migliore, potrebbe praticare l'Ill.mo Signor Ispettore Scolastico.
                                                                                                                               Dev.mo

                                                                                                           MARCO D'AURIA. »

*

Mentre don Marco finiva di leggere l'istanza, il vento spense il lume, ogni cosa scomparve e restarono sole le stelle, a due passi dagli occhi che tutti avevano intenti, nel silenzio succeduto alla voce stanca del padre. Poi, dopo i primi tocchi spaziati che scendevano dal campanone di San Lorenzo, nella stanza dell'orto si udì un tonfo, come di secchia in una cisterna: e tutti sobbalzarono. presi da una paura irragionevole.
Soltanto Teresa capì subito che si trattava del solito richiamo delle cugine, le quali, per farsi udire, battevano sul muro divisorio delle due case, nel punto che, al tempo degli avi, doveva essere stata una porta, tra camera e camera.
- Sono « quelle di là dentro » - disse - Accendete: alla fine, non è morto nessuno, grazie a Dio! (E si alzò).

Mariuzza e Annetta volevano sapere se fossero disposti ad accompagnarsi insieme alla funzione della Decìna: Teresa riferì alla signora Assunta, che disse di no, perchè non si sentiva bene. E così le cugine non insistettero.
Ma la verità era un'altra: prima di tutto, la grave notizia or ora appresa: eppoi « volete andare a farvi criticare? Bisogna rimodernarere gli abiti, farli tingere: in due o tre giorni, si rimedia. Per ora andatevene a letto che è tardi.
Le fanciulle obbedirono. La signora Assunta finì di rimboccare le coperte sul lettino dei piccoli e seguì il marito che si era già coricato. « Dunque, - diceva, come a concludere un discorso già iniziato con lui, - non devi scoraggiarti: La roba serve al bisogno, per poca che sia. E il Signore non abbandona. Buona notte ».

Si mise a recitare le orazioni, mentalmente.
Poi spense e si addormentò. La mattina seguente, scese in cortile col pretesto di «toccare» le galline: poi, passando davanti al catodio locato a Palma la sensala, si fermò a guardare le càvie che s'intanavano sotto i muri, e fece le sue meraviglie, perchè. proprio, erano diventate una mandra!
- Che zucchero!- disse la sensala, seduta a sferruzzare sulla soglia.

- Zucchero, sì; ma figliano troppo e rovinano la casa: come facciamo?
Palma era una volpe mammona: ma, toccatole il debole, cioè i porcellini d'India, perdeva ogni astuzia: a vederseli attorno, con quegli occhietti d'oro e il pelo color di rosa, non era più la barattiera accorta che spennava i poveri: ritornava faccia a faccia al passato, la giovinetta di vent'anni, bianca più del midollo della palma, vergine e innocente, com'era prima della «disgrazia». Perciò il discorso della signora Assunta la turbò tutta: « poverini, dove li porto, ora che hanno la tana?» Prega, supplica, promette persino di versare un'annata anticipata. E più tardi, infatti, sborsò quattr'onze scarse, alla presenza di due testimoni, che furono Vignapersa e la Cucca.

Verso le dieci, poi, vide scendere dalla casa dei padroni Carmela la tintora, che portava sottobraccio un involto, da cui sgusciava la pedana d'una veste bianca; riconobbe l'abito di lanetta che aveva visto tante volte alla signorinella, a Teresa... E allora capi tant'altre cose: si mise prima a riflettere e finalmente cominciò a cantare.

 


Stasera (son passati tre giorni) la Filarmonica e i cantanti della decina eseguiranno una canzoncina dello zio Biagio. Non solo; ma s'inaugura l'organo nuovo... (Come no! L'organo di Giambattista Sutera: con tredici registri, stagno, flauto in ottavo, tre corni, voce, umana e otto pedali; contrabbassi, tamburo e uccelliera; usignolo, tabàli e timpanelli: tutto per cinquant'onze, re- stando al Sutera l'organo vecchio, franco di trasporto: e lo assicura Pipino Mantella, organista).

- Dunque, ci venite? - ripetono Mariuzza e Annetta.

- Ma certo!
Oramai, tutto è in ordine: abiti, scarpe, calze traforate, cipria. La signora Assunta dà gli ultimi tocchi alle figlie: che non sfigurino, che nascondano lo smacco del dolore e della miseria.
- Pronti, pronti!
Scendono nel cortile, dove sono le cugine ad attendere: si mettono per due; s'incamminano.
San Lorenzo è una chiesina che bisogna proprio andarla a cercare lassù, presso la cima del monte, a un tiro di schioppo dai pietroni che sono i ruderi del Castellaccio, sospesi nell'azzurro; un rettangolo calmo, col suo campanile gotico, foderato da un camicione di gesso, qualche passero e le campane.

Dentro, però, nel Tesoro, ha la Reliquia santa incastrata in un braccio d'argento; la palma del màrtire, e l'auténtica in pergamena, col bollo episcopale. Poi, il Coronale dell'Accademia, che è la preziosa fonte musico-lirica della Decina in lode del Patrono.
Quando vi giunsero i nostri amici, la chiesa, splendida di candele accese sui trincerii, era letteralmente gremita e perfino le sedie dei galantuomini erano occupate, perchè i «signori» erbiténsi amavano onorare il Germe d'Osca, di cui più d'uno si gloriava nipote. Senza dire, poi, che la Filarmonica (per la quale si era elevato un palco di legno a gradinata, proprio a due passi dall'àbside) era formata tutta di nobili; il che si ripeteva anche pei cantori, tra cui, nientemeno! c'erano i due più giovani nipoti di un senatore. E perciò, se c'era Pepé il grande col suo colascione e il piccolo, col violoncello: Micuzzo con l'oboe e il vecchio barone Gavira con la viola, ci dovevano essere per forza tutte le donne, i parenti e gli ammiratori.
Per non restare in piedi, quindi, non c'era che accomodarsi alla meglio sull'unica panca libera tra i contadini: le donne, a sedere; i maschietti, in bilico tra il confessionale e il petto di don Marco. Il quale, dritto sull'inginocchiatoio, emergendo sulla folla, vide subito un moto di curiosità propagarsi tra la «signoria » e gli occhi verdi di sua cognata Narda, la moglie di don Biagio, trapanarlo come un punteruolo. (Povero fratello mio! pensò allora: ...Con una moglie simile, trova ancora la forza di rifugiarsi nella musica!).
Cominciavano: i soliti sermoni e le cantilene. Poi, ecco il preludio alla «coroncina» nuova e il coro:
« Lòdisi dunque il protettor beato

che dai primi vagiti (e in culla, ancor!)

arse d'amor divino, appena nato».

Che avviene?
La voce del ciantro, dalla cantoria, è andata fuori tono, berciando: Pepé il grande cerca di coprirla con un'arcata formidabile al colascione: e allora è un rovinio, un inseguirsi di note. un affannarsi inutile di strumenti e di voci. Disastro!

Don Marco ride anche lui: come si può resistere? Ride, eppure vorrebbe schiacciare la testa a tutti quelli che ridono: e vede ancora la cognata che lo guarda, più invelenita di prima, si libera sconciamente dalla folla che la preme, e corre nella canònica.
Nella canònica c'è don Biagio, pallido come un morto: la moglie, per consolarlo, succhia un uovo, uno di quelli che son sempre rinnovati nella sua borsa da passeggio e servono a prevenire gli svenimenti.
- Ma la colpa di chi è? - gli dice poi, appena tornati a casa. - E si capisce, aggiunge, che la colpa è di lui, del cognato, il quale (invece di stare coi pari suoi!) se ne va con la famiglia in mezzo ai villani e si mette a fare lo spiritoso: è stato il primo, a ridere!
Nonostante la bile, il povero don Biagio afferma che il fratello non c'entra e che la colpa, se mai, è di quell'asino del ciantro (salvandogli la Messa), che, al colmo del cantàbile, se ne va fuori chiave, e, con quell'estensione e quel cannello di voce che si mangia tutte l'altre, è una disgrazia!

Ecma, dunque... signora comare: perchè l'avete sempre con mio fratello? Siete cattiva! La donna, che per rinfrescarsi sta scamiciandosi vicino la specchiera, fulmineamente afferra una spazzola e con questa lo colpisce sul dorso della mano. Poi, per farsi perdonare, gli va vicino, con la sua nudità di marmo.

                                                                *
Quattr'onze scarse sono cinquanta lire. Dunque: tingere e rimodernare due abiti, comprare le scarpe di «caramannula » alle ragazze, una canna di zaffiro per Letizia, risuolare gli stivaletti ai piccoli, mangiare per sette giorni: fate il conto. Ho in tasca sei tarì dice la mattina del nove agosto la signora Assunta, svegliando il marito.

Sei tarì sono due lire e cinquanta centesimi: ma don Marco non si turba, perchè egli è sempre quel giovane che, pur di vivere coi fanciulli, s'era messo a insegnare abbiccì, quando il Comune dava «sei tarì» al maestro di «leggere e scrivere » e cento alla bàlia dei proietti: i quali, evidentemente, erano lo svago dei signori.
Ora, siccome i suoi due maschietti son venuti in camicia davanti al suo letto per domandargli la «fiera », cioè i soldini per la festa, egli non può vedere altro che i loro piedi, téneri sul rosso dei mattoni, le teste brune coi capelli arruffati, gli occhi senz'ombra e la bocca riposata: e perciò pensa ai passeri di primo volo, si leva a mezzo letto e dice:
- Nel gilé...

I bimbi frugano nelle tasche del panciotto appeso dietro la tenda dell'alcova, allegri come se fossero entrati in un raggio di sole: poi, man mano, diventano seri, tristi, più tristi: e si fermano come davanti a un fiume troppo grande. Finalmente, ecco un tintinnio sui mattoni, eppoi un altro, un altro, un altro: sono caduti quattro soldi, e il sole torna a splendere negli occhi dei bambini.

- Prendeteveli tutti, dice il padre.

Più tardi, chiamata la Pula, che voleva in affitto la stalla, n'ebbe in anticipo un'onza e mezza: diciannove lire.

                                                                    *

Ma perchè non rispondono, nemmeno dal provveditorato?
Risponderanno.

Per ora, alla terza sezione del R. Provveditorato di Caltanissetta non si respira: ogni volta che il fattorino torna dalla posta, sono ricorsi a montagne, scaraventati sui tavoli.

L'innesto del governo Italiano sui vecchi schemi borbonici (basati sull'appoggio della classe di mezzo) continua a dare amarissimi frutti: l'Autorità nelle mani di pochi prepotenti; mafia, omertà, indisciplina; potere giudiziario servo dell'esecutivo; sindaci, consigli, deputazione, in combutta.
Che altro ci vuole, perchè anche alla terza sezione ogni impiegato sappia che, in fatto di pratiche, il «centro» è la sede del deputato e che perciò l'urgenza è in rapporto diretto con la distanza dal «centro»?
La pratica D'Auria» (regolarmente protocollata, chiusa nella cartella delle « Rogne ») dorme, dunque, il sonno del giusto: c'è, in margine al ricorso, un bel punto esclamativo rosso (commiserazione) e, più sotto, una pipetta (consegna di russare).

La cartella è posata sopra un tavolo.

Sulla cartella, posa una pietra.

Sulla pietra, sulla cartella e sul tavolo, la polvere.

pagg. 119-136