AIDONE - RUDERE DI SANTA CATERINA DA SIENA - CHIESA E MONASTERO

anni 40 - cava di pietre - demolizione dei ruderi

Nel corso di una passeggiata fatta all’interno di un progetto di Comunità Educanti, finalizzata alla costruzione della Mappa di Comunità, i partecipanti sono stati molto incuriositi dalle rovine della Chiesa e dal monastero di Santa Caterina da Siena, che si incontrano lungo la via Roma. Ho cercato di approfondire le mie conoscenze attraverso i pochi documenti esistenti. A partire dal fatto che da cantonale a cantonale, dal numero civico 183 al n. 219 solo una piccolissima parte (acquistata allora dal fratello di Padre Vinci, Filippo, e poi donata alla Chiesa Madre) è rimasta rudere, il resto, diviso in piccoli lotti è stato ricostruito con edifici ad uso civile. Traggo alcune notizie dalla recente pubblicazione di Vincenzo Impellizzieri “Aidone. I ricordi, la sua storia...” (pagg. 66 e 110) e dal documento del canonico Luciano Palermo che vi è compreso.

Il monastero fu edificato nel 1535 da Fra Vincenzo Coniglio da Piazza, dell’ordine dei Padri Domenicani e ospitava una notevole comunità di monache domenicane di clausura e di educande. (Rocco Pirri “Sicilia Sacra, Ecclesie Catanensis. 1630-1649. pag. 116 “Santa Catherina de Senis. Moniales ordinis Dominicani, opera F. Vincentij Coniglio Platiensis anno 1535 sacris claustris circum psectae sunt”) Subì dei danni a causa del terremoto dell’11 gennaio 1693. Le religiose e le educande furono trasferite nel convento di san Pietro dei Carmelitani e vi rimasero finché non furono riparati i danni.

Nel febbraio del 1865 il convento fu fortemente danneggiato con il crollo di buona parte dell’edificio. Alcune suore rimasero ferite e vi trovò la morte una delle educande, donna Bonella Anzalone.

Nel 1866, l’anno dopo, a seguito della legge di soppressione degli enti ecclesiastici, le suore superstiti furono cacciate e i beni venduti all’asta. Alcuni degli arredi sacri furono trasferiti in altre chiese. Nel 1880 le campane, recuperate, furono installate nel nuovo orologio della chiesa di Santa Maria La Cava.

Nell’immediato dopoguerra, fine anni 40, l’allora parroco Angelo Minasola ottenne l’autorizzazione di asportare i conci e le pietre, di quel che restava del rudere, per realizzare il nuovo edificio annesso alla Chiesa Madre, destinato ad ospitare le persone indigenti; l’edificio fu completato solo molto più tardi, negli anni 90, da Don Felice Oliveri con la nuova destinazione ad oratorio.

Il rudere della chiesa di Santa Caterina comprendente la torre campanaria, e l’area dell’intero sito ci dice che doveva essere uno dei più grandi e maestosi manufatti costruiti dagli ordini religiosi in Aidone.

A questo monastero è legata la leggenda del miracolo di San Lorenzo che liberò il paese dalla peste. Il 9 agosto del 1624, in occasione della “festa grande” una giovanissima monaca, che vegliava nella notte della vigilia di San Lorenzo, per il suo turno penitenziale, ebbe la visione di un giovinetto, con le sembianze della statua del San Lorenzo che si venerava nella vicina chiesa, che con una fiaccola dava fuoco alla balla di stoffe di uno dei mercanti che esponevano la propria merce lungo la via. Il giovane rientrò in chiesa e la suora pensò di averlo sognato. Ma l’indomani si scoprì che il proprietario delle stoffe andate a fuoco proveniva da Catania dove già infuriava la peste: con molta probabilità le stoffe erano infette e san Lorenzo aveva preservato il paese dall’epidemia.

 

Il monastero resta nella memoria popolare per la leggenda, citata, riportata da Ettore Capra in un bel racconto dal titolo "Ignis aestuans". (https://francaciantia.altervista.org/e-capra-ignis-aestuans.html), per il toponimo, per un proverbio.

Ettore Capra (1871-1931) la narra nella sua raccolta di “Leggende paesane”, dice di averla ascoltata da una delle ultime monache superstiti di quel convento. Veniamo a sapere così che la monachella faceva il suo servizio di preghiera nel coro della chiesa di Santa Caterina da Siena che aveva una finestrella che affacciava sulla attuale via Roma, con vista sull’ingresso della Chiesa di San Lorenzo. In questa leggenda Capra parla della festa grande che si teneva ogni dieci anni e che vedeva il suo evento più atteso nel “Battimento”; data la vicinanza delle due ricorrenze, si celebravano in contemporanea, nâ festa ranna, san Lorenzo e la Madonna delle Grazie (2 luglio), il cui quadro miracoloso, attribuito ad Antonio Novelli, dalla sua chiesetta veniva portato nella Matrice e lì venerato in quei giorni di festa.

“A criàra dâ Battìa nan canuscia a Cciappa” la serva dell’abbazia non conosce la Ciappa.

Questo proverbio ci ricorda che gli aidonesi chiamavano il monastero a Battìa, l’abbazia; che le sue finestre a occidente si affacciavano sulla contrada Ciappa, nei pressi del Garraffo, famosa per i suoi orti. Il senso: ci si dimentica facilmente delle proprie origini se si raggiunge una posizione sociale appena superiore, la serva del monastero uscita dallo stato di indigenza non sa più neppure dove si trovi la Ciappa che faceva parte del suo panorama quotidiano.

Il toponimo, a santa Caterina, per gli aidonesi è un chiaro riferimento all’altezza della Via Roma; una stradina che fronteggia il rudere e si apre in via Valeriano Bulzè, ne ha peso il nome.

Aidone - Monastero di Santa Caterina

La descrizione della festa - Riporto volentieri la descrizione della festa che ne fa Capra nel racconto. La festa grande e il Battimento si celebrarono per l’ultima volta nel 1890 come si legge nelle note al racconto.

Da Ettore Capra “Leggende paesane” Catania. Ed. Giannotta. 1906. pagg. 73-75

“Da tre giorni ferveva la festa grande nella cittadina di Aidone, che, animata d' una vita insolita, vestita de' suoi colori più smaglianti, sorrideva nel sole ardente di agosto. Al consueto silenzio indisturbato, che faceva somigliare le sue vie a corridoi di chiostro, s'era sostituito il gaio brulichio delle numerose comitive, che ne' pomposi colori de' loro abiti festivi, riempivano di voci e di risa l'etere luminoso. Su la piazza principale ogni bottega aveva assunto un po' i colori della straordinaria festività: botteghe di varietà improvvisate per l'occasione con le mercanzie più appariscenti messe in mostra su gli sporti - teatrini di marionette col loro pagliaccio su la porta, tutto intento a ingoiar stoppia e cacciar fuori fumo, con grande sorpresa degli allegri spettatori, a suono di bombardoni e grancasse che straziavano le orecchie - piccoli caffè, coi tavoli su la panchina, affollatissimi d'avventori - dappertutto una folla multicolore e gaia che si pigiava, si urtava, schiamazzava, mescendo gli scoppi di risa al tintinnio continuo delle monete, come invasata da una mania strana di spendere e di godersela.

Quel giorno, la vigilia della festa, la folla dei forestieri era cresciuta oltremodo perchè si era eseguito nel pomeriggio il numero più saliente del programma di tutta la festa: il battimento, specie di torneo caratteristico, rappresentante un fatto d'armi fra Turchi e Cristiani (tutti in costume), che finiva sempre, com'è naturale, con la vittoria di questi e la sottomissione di quelli. Questo spettacolo tradizionale, conosciuto per fama in tutti i paesi circonvicini, aveva chiamato anche quell'anno, come tutte le volte precedenti, una folla enorme di forestieri, che, accorsi veramente per godere il colpo d'occhio dei mille colori intrecciantisi gaiamente, serbavano tuttavia in gran maggioranza un sorriso sarcastico su le labbra, come se fossero venuti unicamente per rivedere, le buccie agli Aido- nesi e al loro famoso battimento.

Su l'imbrunire, la folla numerosa, in attesa dell'ora del vespro, s'era sparsa per città, ad ammirare certi archi messi su ad ogni sbocco di via principale, con rami di bosso e di lauro, e quadri di Madonne e Santi, e ritratti di Re e Regine, e bandierine multicolori e roba per ogni gusto; il tutto rischiarato da fanaletti rossi e verdi, che sembravano vergognarsi della loro luce ad olio modestissima, destinata a illuminare quegli archi di trionfo, come pomposamente li chiamava il programma della festa. Fatto sta che man mano che il crepuscolo andava scolorendosi, cresceva l'oscurità nelle vie, ad onta degli archi di trionfo e delle piramidi addossate ai muri co' loro lumicini, che dovevano rappresentare la “fantastica e straordinaria illuminazione delle vie e piazze”, annunziata. dal programma…

(nota n.2 pag. 92) “Piramidi erano chiamati certi tavoloni a muro, di varia forma, rappresentanti per lo più colonne o pilastri sormontati da vasi di fiori, cui si attaccavano lampioncini a colori per illuminare le vio principali. Alcuni di questi arnesi preadamitici esistono ancora, fan capolino di tanto in tanto nelle feste, vestiti alla moderna, sorreggendo tampadine a gas acetilene”.

Aidone -Ruderi della Chiesa di Santa Caterina da Siena ESCAPE='HTML'

Nella foto antichissima si vede, dietro San Domenico la facciata e il campanile integro di santa Caterina